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31 luglio 2013 3 31 /07 /luglio /2013 13:45

“EROS E LA NUDITA’”, di Ninnj Di Stefano Busà Ed. Tracce, con interventi critici di Walter mauro, Plinio Perilli, Artur Schwarz

                               

                               a cura di Franco Campegiani

 

 

In lingua etrusca (poi latina) maschera significa persona. La persona dunque nasconde? e cosa nasconde? L’entità spirituale che sta dietro di sé. Un nascondimento naturale che non equivale all’inganno, alla falsità.

E il vestito invece cos’è? Maschera della maschera, esso non può che essere finzione, bugia, inautenticità. La nudità è una qualità dello spirito. Dovremmo imparare dagli animali (termine nel cui etimo c’è un esplicito riferimento all’anima) a vivere con innocenza la nudità. In questa poesia (Eros e la nudità, Tracce edizioni) è posta in grande evidenza l’innocenza dell’atto d’amore, attraverso il quale gli umani si svestono non solo fisicamente degli abiti, ma spiritualmente di ogni ipocrisia e di ogni mascheramento, tornando come per incanto all’Eden, alla condizione originaria: “Ora, ambedue erano nudi, l’uomo e la donna, ma non provavano vergogna” (Genesi, 2, 25).

Doveva essere una poetessa, per l’esattezza Ninnj Di Stefano Busà, a ricordarci una cosa tanto elementare e tanto grande. La poesia amorosa maschile si attiene ad altri canoni. Non che essa sia costituzionalmente incapace di innocenza (ci mancherebbe altro!), ma è tradizionalmente attratta dai temi orfici e tragici dell’assenza, della lontananza, dell’irraggiungibilità. Una poetica del desiderio, alimentata dal distacco e dalla proiezione ideale. Nell’amore per Euridice, nell’amore rudelliano e trobadorico, e poi nell’amor cortese, come nel clima del dolce stil novo, per non parlare del Canzoniere petrarchesco (ma finanche dell’A Silvia leopardiana), non fa che affiorare in modi differenti l’irrealizzabilità del sogno d’amore. E non inganni la variante dionisiaca di questa stessa visione amorosa (licenziosa in Catullo o in Casanova; passionale in Neruda): morbosa e tragica, questa non fa che lasciare l’amaro in bocca, spingendo paradossalmente l’Eros verso una fuga perenne, verso una sua (improbabile) realizzazione in divenire.

Eros e la nudità parla invece di un amore fisico, carnale, in cui è stampato il fuoco dello spirito. Un amore pieno, fatto di presenza e non di assenza. Un amore dove si aprono le porte del Paradiso, mettendo in comunicazione gli angeli del cielo con quelli della terra, in un tumulto irrefrenabile dei sensi e dell’anima: “Un’euforia che strazia l’anima, / un soffio di zeffiro tatuato sulla pelle, / e ti perdi tra ali di cherubini”. Un baciare la terra per elevarsi al cielo; un elevarsi al cielo per tuffarsi nel fiume della vita.

Ci troviamo nell’Eden, non c’è che dire. Nel luogo mitico e archetipo, ossia, dove l’umanità è stata inserita all’inizio dei tempi, ma dal quale inesorabilmente poi è fuggita, e continua a fuggire, per sperimentare lo squilibrio, la lontananza dalle origini, finendo per sbilanciare l’albero della vita (la sua stessa pianta spirituale-corporale) nella direzione materialistica o in quella ascetica, con identica incoscienza e superficialità.

L’Eros è, al contrario, per la nostra poetessa: “il suo darsi in interezza, senza nequizia / come librarsi in volo senza paracadute / e nello schianto donare ritmo e respiro / alle cose del mondo”. Oppure “è ristoro, finestre spalancate, / tralci radiosi, profumi imposseduti / che transitano dalla pelle in senso ascensionale”. Così che “sul corpo che ha sfidato l’eternità / dell’attimo, resta la vertigine ascensionale / dell’amplesso”. C’è una reciproca tensione fra spirito e materia. Un’armonia dei contrari, potremmo dire.

Sta qui l’Eros, raggiungibile solo in momenti particolari di grazia, perché l’amore “ci scorre tra le pieghe come istante perfetto / nell’arroganza di solitudini abissali”. Ma “quel solo attimo ti assolve, / ti fa padrone del mondo”. Un attimo che compare e scompare nel dolore del mondo. Ma se l’esistenza è “mucchio d’ossa abbandonate / a qualche raro momento di piacere”, “l’amore trova sempre l’orlo dell’abisso / in cui morire e poi risuscitare”.

Così “dalla nostra carne sboccerà l’aurora” e “un guizzo negli occhi accoglierà / la frenesia dell’anima insieme / ai frammenti d’infinito”. L’amore non è distacco dai sensi, ma è salire in alto con essi sulle ali dello spirito. Non è lo stordimento, l’anestesia sensoriale effusa dal canto di Orfeo, ma è la pienezza rara dei sensi, la loro edenica ed innocente felicità. Quando “dalla vita succhiamo l’ultimo coraggio /che ci concede un tuffo nell’eternità / siamo fragili ed eterni”. Sta qui la filosofia di questo canto, in questa dualità consapevole del destino di morte degli umani, ma nello stesso tempo di tutta la ricchezza che proviene dall’amore: “Solo noi, mano nella mano, con la condanna del tempus fugit / la percezione viva di un vuoto”. Tuttavia “l’amore ci fa ricchi”, “così s’allenta il nodo, ci salva / dal morire questo nostro amore”. Affinché, “se viene di soppiatto poi la morte, / ci ritrovi abbracciati… / oltre noi stessi”. Se il tempo logora ogni cosa, “ha senso solo ciò che ami”, conclude la poetessa, e non vi può essere chiusa migliore.      

 

                                                                                 Franco Campegiani

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