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6 dicembre 2014 6 06 /12 /dicembre /2014 17:55

a cura di Ninnj Di Stefano Busà

 

 

Prefazione

 

Una raccolta elegante che ha la pretesa di significare e interpretare l’Amore come mero fulcro dell’anima, l’unico sentimento che ci può restituire tutto, o almeno in parte, quel grande bisogno interiore di sentirsi doppio, con l’altra metà del cielo.

La poetessa Valeria Serofilli sembra approfittare di una vacanza in Grecia per sfoderare tutta la sua potenza immaginifica, il suo sirtaki, la sua voglia di donarsi al caldo grecale dell’isola incantevole, esorcizzando l’apoteosi dei sensi, alla dolce e stringente realtà di un idilliaco sentimento che la prende fino in fondo all’anima.

La raffigurazione poetica è di grande impatto, i sensi sono allertati e desiderosi di una danza duale, di un incontro alla luce abbagliante, ai venti prorompenti dentro un’atmosfera che sembra rubarle emozioni forti, carichi di quell’ardore che le fa dire:

Tutti gli incensi/ dall’ambra al muschio selvatico

non valgono una stilla / del profumo della tua pelle

dopo l’amore

mentre intesso tasselli musivi sul tuo corpo:

ogni tassello un ricordo/.../ “

 

Così come una nuova Vestale, la Serofilli ama avvolgersi in pepli di nostalgia e di abbandoni, utilizzando schemi fonetici e simbolici di grande impatto emotivo:

 

Quale più annichilente vertigine a stordirmi

e rinsavire?”

Per poi ancora ritornare alla memoria, al richiamo dolcissimo e suadente di una magia amorosa:

All’amore, al fuoco di passione

non chiedo verità

tra il limite del sogno e recriminazione...

 

 in altri versi la poetessa raggiunge l’acme dei sensi in un trascorrimento emozionale che entra  di prepotenza nelle sue viscere, nel suo sangue:

 

Sul tuo corpo tracce

del nostro amplesso/ miste ad altri odori

di cui non mi spiego il senso...

 

 

Sono un oggetto del desiderio, una passione inestinguibile quelli che paiono attraversare le figure retoriche di queste composizioni liriche, per attestarsi a pura e semplice personificazione dell’oggetto amoroso. Una forte vibrazione che risveglia l’anima dal torpore, facendole gustare il miele della frenesia, in moti d’anima percettibili: 

Vendemmia di pelle/ occhi negli occhi.

Se è tutto inganno

inganno sia

perché è questo

il più dolce annegamento.

E continua la sua folle odissea, come Penelope tesse la sua tela, invano, ella si fa magma e fuoco, nelle vene, scorre quel fluido che non dà requie, che mostra la sua emozione in continui assalti e saltuarie epifanie:

All’amore, al fuoco di passione

non chiedo verità

tra il limite del sogno e recriminazione.

 

e trascrive parole di fuoco alla sua pagina appassionata e vibratile, presta l’orecchio alle sibille, come sirene che incantarono Ulisse, ella si appropria dell’immagine letteraria per sovvertire il suo irrazionale afflato cosmico che entra prepotente nel suo rapporto amorevole; lo tramuta spesso in vortice, in abisso, in foresta, in fiore, in albero, lo nutre dell’humus del sogno, in desiderio, in carne che fanno la differenza, mentre si scioglie in lei, la fatica dell’amplesso, che malgrado conceda paradisi inimmaginabili, crea anche abissi di perdizione senza scampo:

E la sete, la pazzia/ la cieca corsa verso il mare aperto

smarrendo il mio sguardo/ oltre la soglia dell’amore.

La poetessa sa che vi è un punto di non ritorno, un transfert che ingenera la follia di ogni trasformazione, forse di ogni abbandono e non può rassegnarsi, lo descrive come un indicibile arrendevole volo, qualcosa che procede a rilento nell’estinguersi, perché ormai è penetrato nelle vene e nel sangue, lasciando spasmi e sofferenze, graffi e contusioni: l’amore dà, l’amore toglie, perciò pronuncia questi versi con pacata rassegnazione, li scandisce attraverso il singulto, il respiro e il canto; come un sogno che sa trasmettere realtà inintelligibili, ella si appresta forse alla fine, forse ad un nuovo addio con evidente sofferenza:

Itaca per me/ è il tuo risveglio

quella frazione di luce, sul tuo volto

la rugiada mattutina, sul tuo petto

il tubare delle tortore, sul cornicione

per il buongiorno

mentre felice dicevo -sono tornate-  (Le tortore sono tornate al cornicione

Questa simbiotica fusione si avvicina ad una sorta di mito che persegue le coordinate dello slancio amoroso, ne marca fortemente i simboli. Vi è una metaforicità che di frequente si abbandona all’azzardo e all’inquietudine di una forza epifanica di resurrezione. La Serofilli, sa misurare l’aspirazione della memoria ad estendersi alla precarietà dello spazio temporale.

In questa raccolta l’empatia entra in gioco prepotentemente, descrivendo tempi e luoghi, intervalli e soste. Tutto evoca un vagheggiamento, una visione onirica che si propaga e dà compattezza alla raccolta, la coagula dentro un presentire amoroso straordinariamente vivo, eppure fragile.

L’idillio è palpabile, crea atmosfere e sperdimenti fisici; l’input emotivo vi entra in sintonia, ma cerca anche una via di fuga. L’anima tenta l’imperturbabilità ma è suo massimo delirante approdo. Una sorta di prodromo dileggio verso quei rari momenti di abbandono è d’obbligo, per ritemprare energie, misurare il turbamento. La poetessa carica di vitalità e di intrecci semantici anche le più piccole antonomìe con impulsi ed estensioni che ne rafforzano valenza e vitalità, raggiungendo per così dire la Bellezza della forma, entro la panica esplosione delle sue configurazioni verbali, che infine ne danno pienezza di esiti tra i più felici e realizzati.

 

Milano 6 dicembre 2014                                                                           Ninnj Di Stefano Busà

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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29 novembre 2014 6 29 /11 /novembre /2014 11:24

 Recensione a  Ninnj Di Stefano Busà,  Soltanto una vita, Kairòs Edizioni, Napoli, 2014

 a cura di Maurizio Soldini

   Soltanto una vita dà a pensare che nonostante nelle varie epoche ci siano dei canoni piuttosto ben individuati e individuabili in letteratura, che dettano le regole del gioco, c’è una qualche forza sotterranea, che di tanto in tanto fa riemergere come soffioni boraciferi generi ormai in disuso e non più apprezzati dalla critica contemporanea. È così che il romanzo di Ninnj Di Stefano Busà dà l’impressione di voler dare nuovamente voce al romanzo d’appendice. E con questo senza voler togliere nulla o disprezzare l’opera in oggetto o il genere medesimo. Con lo scopo, in questo caso, come nel caso dei gloriosi feuilleton delle epoche passate, di fare anche opera di divulgazione delle narrazioni e delle storie con l’intento di incrementare il numero dei lettori e di conseguenza di avvicinarli alla letteratura, e nello stesso tempo di dare alla letteratura una dimensione non soltanto narrativa intesa come descrittiva di eventi e caratteri, ma soprattutto una dimensione prescrittivo-moraleggiante.

   La storia narrata in Soltanto una vita racconta le vicende ambientate in America del Sud e precisamente in Argentina di una famiglia benestante alto-borghese nata dalle ceneri di un fidanzamento e di un matrimonio entrambi falliti, che la voce narrante sottopone a una diffusa analisi psicologica cogliendo con abilità sfumature che potrebbero far parte di tante situazioni rinvenibili nella realtà, tanto più se alla base dello scollamento delle coppie vi  sono momenti legati a problemi di psicopatologia come nel caso del romanzo.

   L’amore che sboccia tra Julie e George, i due protagonisti, non poteva nascere se non tra i rottami lasciati da un uragano, che sono l’alter ego della buriana, che aveva invaso l’anima di entrambi. Da un normale prendersi cura da parte di Julie di George, trovato gravemente ferito su una spiaggia, dove lei si era fermata “a leccarsi le ferite” della sua esistenza, gravata da un cattivo rapporto sentimentale, che per quanto finito non era ancora del tutto metabolizzato, c’è il passaggio a un amore che diventa subito travolgente e appassionato al punto che i due iniziano a essere coinvolti anima e corpo in una bella storia d’amore. Nonostante le mille difficoltà legate al fatto che George è ancora sposato con una moglie, problematica e nello stesso tempo psicopatica, che continua a dargli non pochi problemi, fosse pure per il fatto che i due hanno un figlio, Alex, che malauguratamente, nel momento in cui viene sancito il divorzio, viene affidato per assurdo alla madre con la conseguenza di provocare in George un grave turbamento. Dispiacere che pur incrinando l’umore di George non impedisce che Julie possa realizzare il sogno di poter sposare George per cercare di avere un figlio. Di lì le vicende si snodano nel bene e nel male e il rapporto sempre intenso tra i due procede tra un incidente di percorso e l’altro in un cammino per la coppia piuttosto roseo, anche in virtù del loro stato di benestanti, e tra un aborto spontaneo che dapprima tarpa le ali a una felicità che sembra non potersi compiere, e all’arrivo infine della figlia Emily, tra una malattia per George, colpito da un grave insulto cardiovascolare nel momento in cui sta per ritrovarsi con un figlio, che sembrava irrimediabilmente perduto per il padre in seguito all’affidamento alla madre, che li aveva allontanati definitivamente, e quindi ancora la malattia tumorale per Julie non fanno altro che riportare a quell’andazzo che è proprio di una vita soltanto, vita che sembra segnata da momenti di felicità, che preludono a momenti di infelicità e viceversa, come siamo abituati a vedere e a vedere riflettere nell’andamento meteorologico in quel movimento ondivago di tempeste, che preludono a cieli tersi e azzurri e che a loro volta precorrono l’onda d’urto di un uragano.

   Così sarà anche per la figlia dei due protagonisti, Emily, che nonostante i traguardi nella vita professionale e nonostante la vita più che agiata e un matrimonio con un facoltoso italiano naturalizzato argentino, Andrea Foscari,  dovrà fare i conti  con alcune traversie della vita che non guardano in faccia se uno è ricco o povero… Alla fine è soltanto una vita. La vita…

   Il romanzo di Ninnj Di Stefano Busà è circondato dall’inizio alla fine da un’aura paradisiaca naturalistica, sociale e linguistico-stilistica, dove tutto sembra collocarsi in una favola fuori luogo e fuori dal tempo (se solo pensiamo a quella che è la realtà, oggi in tutto il mondo, e tanto più in molti paesi del Sud America, dove spesso per la maggior parte delle persone vi è miseria, povertà, degrado, infelicità e comunque tutto il contrario di quello che si legge nel romanzo, che è invece solo per i pochissimi) in una u-topia nella quale, se non fosse per l’evenienza delle intemperie e del male fisico e/o psicologico che colpisce gli uomini a disturbare il clima edenico, vi è una prevalenza di fasti di feste di ricchezza di bellezza di politici di ambasciatori di persone comunque “importanti” e altolocate di primi e di primari in tutte e di tutte le dimensioni sociali, di efficienze e di eccellenze professionali e di inverosimile potere legato al censo, così come prevalgono scenari di sublime bellezza rubati “fotograficamente” al paesaggio oceanico dell’Argentina. Il tutto mediato da un linguaggio che spesso si fa iperbolico, superlativo, fin troppo aggettivato come è proprio del mondo aristocratico borghese che tende a circondarsi quasi esclusivamente con tutto ciò che è “griffato”. Insomma la favola bella di Ninnj Di Stefano Busà ci presenta quello che spesso vediamo nei film e nelle telenovela americani. Il bisogno di vedere la realtà è grande… ma forse gli uomini hanno bisogno di favole… E con questa consapevolezza l’Autrice offre al lettore questa opportunità di sogno. Anche perché per l’Autrice sembra essere prioritario far passare il messaggio che non è tanto importante poi quello che appare, ma, al di là delle apparenze, quel che conta sono l’interiorità e la forza d’animo e le virtù dell’uomo che fanno sì che alla fine i valori, come quello della famiglia, emergano e soprattutto che il bene possa prevalere sul male.

   Il romanzo, come ci si può aspettare, è a lieto fine. Ma lascio al lettore il piacere della scoperta dell’ulteriore svolgimento della trama.

   Come in ogni romanzo d’appendice che si rispetti, anche in questo caso la storia ha un intento pedagogico e moraleggiante e si conclude quindi con le riflessioni da parte della voce narrante dell’Autrice con questa morale:

 

Domani, domani è un altro giorno, come dice Rossella O'Hara nel film Via col vento, il sereno torna sempre, ancora e ancora, si spalancano le vie della provvidenza, che sono inesauribili.

La benedizione di Dio torna a farsi grazia, indulgenza, misericordia. Forse verrà messo a dura prova il corso della vita, da qualche altro ura­gano o tempesta, vi saranno altri ostacoli da abbattere, da superare, ma loro sono una famiglia, in loro si rispecchia l'umanità col suo carico di sofferenza, di lutti, ma anche di qualche gioia o consolazione.

Si può essere vincitori o vinti, si può bluffare con se stessi, o esse­re se stessi, dipende da come sei dentro, da come ti rapporti all'ester­no, ma sono fattori secondari, la forza più tenace che fa da collante all'universo è l'amore.

Veniamo al mondo per amarla questa vita, l'unica che abbiamo, non per opporci a essa o per oltraggiarla, e se talvolta ne veniamo feri­ti, ebbene, sì, tiriamo fuori tutto il coraggio, l'ardimento, la forza morale di cui siamo capaci per lottare strenuamente contro il male.

Non passi per troppo mieloso il concetto che Dio è la fonte, noi siamo la gola riarsa: il nostro limite è la sete inestinguibile, impetuo­sa e inarrestabile, abbiamo bisogno di lui per dissetarci.

Siamo in fondo soltanto una vita, nient'altro...

 

 

Maurizio Soldini                                                     Roma, 29 novembre 2014

 

  

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7 ottobre 2014 2 07 /10 /ottobre /2014 10:27

a cura di Sandro Gros-Pietro

 

 

 Ancora riscontra molti apprezzamenti e va letto con molta attenzione questo stupendo libro della Di Stefano Busà, che non va certo nella direzione del pragmatico o della concretezza. Quella luce che tocca il mondo, uscito già da qualche anno, non cessa di suscitare interesse, per cui se ne parla ancora come novità. Un segnale forte per un titolo di poesia che diventa obsoleto appena uscito alle stampe, con la stessa velocità delle cose abbandonate o scontate...

Va chiarito che il titolo funziona in luogo di metafora della poesia, la quale sarebbe essa stessa parola capace di toccare il mondo e illuminarlo, come sembra abbia fatto Adamo su invito di Dio, nominando le cose mondane. Ma le cose non vanno così facilmente, come confessa in ouverture la poetessa: “Graffiti incandescenti d’un funghire/ stremato di memorie/ succhiano solitudini d’anime inesplose,/ moti leggeri, impercettibili/ di suoni, ombre che affondano/ in giorni d’ambrosia e silenzi,/ .../ in un tralucere remoto di fragranze”.

Non solo dunque il discorso poetico è lontano dalla concretezza, ma è anche esondante rispetto all’astrazione fino al punto di rendersi simbolico e agitare il ricordo di C. Baudelaire:

 

“Parole escono confuse da viventi pilastri/ che l’uomo attraversa tra foreste di simboli”, nei Fiori del Male. In realtà non è un tuffo indietro nell’Ottocento, ma si tratta, invece, di un’implicanza eliotiana come corollaria dei Quattro Quartetti, East Coker, all’insegna del motto: Nel mio inizio c’è la mia fine”. Dice la poetessa in Senza conforto di stelle: “Dilla ora e dimenticala.../la parola vera ti sfuma/ appena chiudi gli occhi,/ mentre l’undecifrabile/  ti segue e prova a librarsi/ all’immenso, senza rete di protezione”. Le coordinate di collocamento della poesia della Di Stefano Busà sono dunque queste appena accennate: espressione evoluta di metalinguaggio post-modernista, che di per sé è ancora una formula troppo vaga, ma ci pensa Emerico Giachery nella sua acclarante prefazione a circostanziare meglio forme contenuti e sviluppi dell’intreccio letterario: “Pensiero poetante, dunque? Poesia pensante, Preferibile parlare di concezione del mondo, non sistematica e tuttavia coerente; incarnata, come è proprio del dire poetico, in immagini, in ricorrenze tematiche armonicamente variate e in una felicità ritmica e metrica senza sbavature, commisurata al respiro del contemplare, del meditare e del rammemorare.” In questa festosa epifania di visioni poetiche che si irradia come la luce in tutte le direzioni possibili, c’è tuttavia una prevalenza di corrispondenze ovvero di echi ovvero di orientamenti simbolici ricorrenti con più frequenza. E’ il caso degli angeli rilkiani che popolano di opalescente luce il descrittivismo  connettivo dei poeti, “ il fiato dei pensieri, l’Orma di Dio”. Il senso complessivo che trasmette la poesia di Ninnj Di Stefano Busà è una percezione di valore incorruttibile e universale, fondata sulla dinamica dei più nobili sentimenti umani, elevati alla dimensione pura della luce, esattamente come avviene nelle opere di Chretien de Troyes.

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4 ottobre 2014 6 04 /10 /ottobre /2014 10:56

PREFAZIONE

 

A cura di Ninnj Di Stefano Busà

 

 

 

 

 

 

 

Lorenzo Spurio in questa sua raccolta poetica usa un linguaggio moderno, asciutto, ma lo fa con leggerezza creativa, senza mai debordare dal solco che lo tiene legato ad una poesia d’immagini, di rarefazioni e di ricadute accidentali in quelle che sono le esperienze, le prese di coscienza di un verbo complessivamente volto alla soggettività di una tensione relativa, che risponde al bisogno della storia personale pienamente presente in questa silloge. Il libro palpita di realtà multiformi, intesse una ragnatela di storia che viviseziona con discrezione il linguaggio della poesia e confluisce con la visione del mondo in una varietà del sentire che ne percepisce il senso dell’immaginario e ne sottolinea la percezione del segno, si fa tutt’uno con le sue componenti figurative, ovvero: figure retoriche, simboli, metafore, allegorie in una terra d’esilio (la nostra), che occasione le molte esperienze di vita, riscopre situazioni che faticosamente si proiettano dal sogno ad una condivisibile speranza oltre “quel sogno”. La poetica di Lorenzo Spurio ricorre spesso ad una malinconia di fondo che riverbera un’assenza, solo all’apparenza placata o in grado di rendersi coesa e verosimilmente ne regge tutta la struttura del testo.

Quest’opera si presenta coniata da una forza evocativa che si esplicita in assonanze e dissonanze; i versi hanno una tensione lirica a volte frammentata, ma sempre fluida, mai sopita né opaca. La poesia scorre come segnale di vita che si ravviva dal suo stesso humus, si fa movimento ascensionale, a volte verticale, altre orizzontale, ma sempre alternandosi a sentimenti, suggestioni, pensieri, ispirazioni che si raccordano al tessuto semantico e alla matrice dell’essere.

La scrittura è polimorfica, avverte le incognite del mondo e si adegua alla necessità di ricompattarsi in una continuità logica delle cose che interagiscono e si compenetrano nell’emozione perennemente in bilico sul “nulla”. In tutta la raccolta si configura una sorta di alter ego che sperimenta e determina la full immersion in reticenze, incognite, compromessi tra il sé e l’altro di sé, configurandosi come alter ego di una matrice che tutto coinvolge e, tuttavia, emette segnali di cose vissute, di legami coi luoghi, con le immagini della fantasia o dell’immaginario che emettono pulsioni quotidiane. Il sogno echeggia talvolta oltre il simbolo che dà sommovimento di forte implicanza nostalgica, indicando figure interamente attraversate da una stratificazione figurativa, da ciò uno dei termini materici che più ricorrono: il cemento, autenticato da compattazioni cementizie, da rincalzi e direi anche puntelli in senso figurativo: l’equivalente di rinsaldare, consolidare e fortificare il genere umano.

Si avvertono tessiture che sanno individuare colori, sapori, emozioni che sono la ragione stessa dell’esistente e dell’assente; determinano un archetipo nel quale s’intuisce un paesaggio interiore in cui appaiono d’improvviso accelerazioni e contrazioni di uno sperimentalismo in fieri. Bellissimo questo explicit: “Ho odorato ancora il fiore/ accorgendomi che esalava tristezza/ e bisogno d’amore”.

La ricerca d’amore in questi versi è paragonabile ad un pensiero poetante che rispecchia la sublimazione del dolore, ma di cui si conserva il profumo o il fuoco smorzato della sofferenza. E tutto infine s’identifica con la vita: Lorenzo Spurio vi antepone una commossa capacità di ragionamento, l’acuta riflessione di una percezione del reale, che intende offrire alla mente l’immagine che la governa, ovvero, nuova vita, nuovi significati, espressioni di una rivelazione che sgorga dal cuore.

Poesia non è, infatti, solo la capacità di offrire riflessioni, ma ciò che si connette misteriosamente al significato delle parole usate e acquista nuovo splendore nel saper individuare la luce riflessa, ovvero, quel mistero che sa cogliere quello che c’è dietro il viaggio acceso negli occhi per sempre. E qui, che anche l’anima del lettore può cogliere l’infinita e arrendevole forza della poesia, soprattutto in quei vividi canti di sdegno, nelle cronache di denuncia di un mondo fatto di lassismo, sopraffazione e ingiustizia dove il poeta, come un novello vate della postmodernità, rompe la logica del bavaglio e proclama con onestà la cruda società d’oggi.

 

 

Ninnj Di Stefano Busà

 

 

Milano, 2014

 

 

 

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23 settembre 2014 2 23 /09 /settembre /2014 17:03

DaEros e la nudità

La poetica di Ninnj Di Stefano Busà

 

(a partire ...dall'incipit )

L’amore non è né comodo né facile,

ci arde solamente dentro come una scintilla vitale,

ci scorre tra le pieghe come un istante perfetto

nell’arroganza di solitari silenzi.

 

Iniziare da questa citazione testuale della plaquette: Eros e la nudità significa penetrare a fondo nella verità e nella vitalità della poetica di Ninnj Di Stefano Busà. Un canzoniere d’amore che investe con tutta la sua portata emotiva la sensibilità di ognuno di noi. Un canto totale, plurale, apodittico, dal sapore sabiano, che tanto si colloca nella nostra tradizione letteraria. E che tanto rappresenta l’inquietudine del vivere, leitmotiv nelle opere della Busà. C’è in lei, nel suo canto, un azzardo continuo verso mete che allarghino sguardi oltre la brevità della nostra vicenda. Partendo dalle cose semplici, dai minimalismi, per conservare nelle fughe il respiro fecondo della terra. L’Autrice, con potenza evocativa e con leggerezza versificatoria, riesce a dare corpo a tutta la sua substantia, ricorrendo all’humanitas del suo essere e alla grande esperienza di frequentazione letteraria. E che frequentazione! E lo fa amalgamando sentire e dire. Lo fa con una simbiotica e quanto mai rara fusione fra anima e voce, dove i barbagli e le folgorazioni ci prendono per mano e ci elevano oltre, facendoci dimenticare, con il Bello, il rapporto della vicenda umana col tempo; le miserie del quotidiano. Ed è così che, evitando l’insidia dei luoghi comuni e del verso facile, ci trasferisce nelle alte sfere della Poesia che, attraverso un percorso irto e petroso, riesce ad innalzarsi fino agli azzurri più intensi del cielo; su cime da cui si aprono orizzonti di larga estensione. D’altronde l’amore non è né comodo né facile, dacché è vita, partecipazione, soluzione e insoluzione, aspettativa e dolore, quietudine e inquietudine; groviglio di sensazioni che si avviluppano in un silenzio rumoroso. Ed è proprio il silenzio ad avvicinarci al sogno e al volo, a quelle fughe di romantica memoria, anche, che fanno del sentimento dei sentimenti una categoria dello spirito d’insaziabile desiderio. Una categoria che si fa nell’Autrice una cifra stilistica dai toni essenzializzati e scarnificati per rompere gli stampi del consueto, per ricuperare, con pienezza ontologica,  lo slancio più alto della letteratura erotico-esistenziale. Ed è in questi silenzi che l’amore arde dentro, e scorre “tra le pieghe” come un istante perfetto. Come se la perfezione fosse là. In quello stato emotivo che pensiamo definitivo, ultimato, completo, realizzato. Ma, purtroppo, non è così; niente è definitivo, men che meno l’amore; men che meno l’aspirazione al tutto a cui la Busà aspira; dacché Ella è poetessa dell’indefinito, di tutto quello che esiste tra una parola e l’altra; e l’indefinito ci chiama e ci assilla, ci tormenta e ci chiede, pretende quelle definizioni che si fanno a dir poco improbabili, considerando le possibilità che ci sono concesse dalle ristrettezze del nostro esser-ci:

 

Mentono ora le tue notti, si allungano

sul selciato dormienti e ingioiellati

dell’oro della terra.

Tutto l’amore è in fuga da se stesso,

sul petto, solo qualche rara orchidea

sa il dolore rappreso nel sangue.

Spore in preda al delirio,

l’amore trova sempre l’orlo dell’abisso

in cui cadere e poi risuscitare.

 

Cadute e risalite di generosa intensità lirica. Di generosa forza epifanico-introspettiva che ci dicono del vivere e de redito suo.

Ed è qui la grandezza della poesia di Ninnj Di Stefano Busà, nell’analisi approfondita, che mette a nudo un’anima contaminata da questo morbo dolce-amaro, che è la vita. Lo fa con un cuore a fior di pelle e con una parola che asseconda, diligentemente, ogni richiamo emozionale od ogni commistione fra intelletto e passione affidata al supporto d’intrecci narratologici. Alle ragioni e alle figure decisive dell’esistenza. Figure che si fanno spiritualità, vissute e ri-vissute con sguardo fermo e con occhi lucidi; con sobbalzi intimi limati dal tempo.  

Ma ci sono le assenze, le sottrazioni che chiedono l’aiuto di configurazioni e cromie paniche per farsi concrete: l’acqua che rigurgita d’insetti, giunchiglie che impazzano, ombre arruffate, baratri di cellule viventi. Questo è l’amore che più non folgora:

 

Impazzano giunchiglie nei fossati

e l’acqua rigurgita d’insetti.

Non resta che la resa,

appena un’ombra un po’arruffata

gioca coi fantasmi, chiamandoli per nome.

Un brivido di stelle,

un baratro di cellule viventi:

l’amore che più non folgora.

 

Ma interviene la memoria con la sua forza affrancatrice, con la sua carica di schegge furtive, con le sue alcove rigeneranti a riportare a vita giorni di sole e notti di sospiri:

 

S’impastava al verde degli anni

l’amoroso gaudio, si coniugava

ai corpi come l’oro al manto stellare,

quando nel buio era bello tacere.

Come un mantra inonda

il cuore della terra e vi s’incesta

nel gesto risoluto e sereno,

come di astrofilo al suo cielo.

 

Una vera simbiosi fra cieli stellati e ghiotti silenzi a inondare il cuore della terra, a creare immagini che avverano fusioni fra astrofili e cieli. Nessi di grande rilevanza scenica, di efficace resa visiva, dove l’eros si fa interprete principale di un film in bianco e nero, ricoprendo parti di realistica pluralità: il fedele compagno di vita, colui che tradisce ed esaspera, colui che si fa vero alimento esistenziale, colui che porta dolore e che immette in una strada che tanto sa di via crucis. Un sentimento ritrattato in tutto il suo climax, disegnato a nudo in tutta la sua molteplicità.    

E anche la giovinezza viene affrontata con tale liricità, con tale controllo emotivo, con tale ariostea visione, che tutto scorre con una resa di generosa eufonica musicalità. Segno di spontaneità, di netta ispirazione trascinatrice, e di materia macerata in un’anima da tante primavere:

 

Fummo fragranza di terre lontane,

vento di passioni, mere effrazioni,

dentro corpi felici.

                             Era la giovinezza,

o l’onda del mare alterata dal vento

che inondava di spruzzi il nostro viso.

Una pur breve eternità cogliemmo

da vertigine d’amore.

 

Breve eternità di  vertigini d’amore. Una piena coscienza della vicenda umana. La consapevolezza della precarietà del nostro esser-ci. Ma è proprio su tale consapevolezza che si innesta questo brivido; questa vampata di luce che più si avvicina alle soglie dell’irraggiungibile per la miopia delle facoltà umane. Un attimo per cui vale la pena soffrire, vale la pena vivere, con la speranza di gioire, magari,  pur sapendo che la nostra storia è un tempo donato dalla morte. Ed è con la fantasia, con le ali della poesia, che la poetessa riesce a ovviare alle aporie del quotidiano; e, dacché sa, e ne è cosciente, che la vita si consuma come un cero d’altare, cerca di nutrirla con tutta la potenzialità dei suoi versi.

 

 

 

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27 agosto 2014 3 27 /08 /agosto /2014 14:11

LA SCRITTURA di Ninnj Di Stefano Busà

saggio critico (a cura di Giorgio Bàrberi Squarotti)


La parola di Ninnj Di Stefano Busà si è fatta sempre più alta, sollevandosi dalla liricità sopra le righe, già assai forte, delle prime opere, fino a raggiungere il sublime delle ultime opere: dalla ricerca del significato dell’esistenza alla riflessione più profonda e lucida, distaccata e sofferta delle vicende e delle esperienze attraversate, che talvolta sono riprese, (ri)narrate, (ri)esposte per spiegarne appieno il valore e la perdita, aggiungerne le sconfitte e le tensioni, l’esemplarità e l’inquietudine. La luce è quella della parola incomparabile: senza di essa tutto sarebbe confusione, incomprensibile caos, impossibilità a trovare valore e verità negli accadimenti così contorti, ambigui, contraddittori per il tempo umano che attraversiamo. La parola, allora, è sempre faticosa, dolorosa, ardua da tirar fuori dal magma della vita per portarla appunto alla luce del mondo, e un testo che è incluso nel libro ne è la prova evidente, poiché si conclude proprio in quella che è una dichiarazione di linguismo e una confessione di accettazione di pene, tenerezze, grazie e affanni, lacerazioni e suggestioni. Ecco, il programma scrittorio dell’autrice è di una totalità estrema, appartiene al mondo: non può disgiungersi da esso, tutto ciò che può essere sperimentato con l’anima e con i sensi, è dono di una grazia trascendente, perché la parola è dunque l’infinito strumento che può rivelarlo, raccontarlo, spiegarlo, al tempo stesso alacremente variandone le visioni, le esperienze, le capacità, gli stati d’animo del poeta, di mostrarne l’antica sua eco e la nuova scoperta. La costruzione dei testi si avvale di costanti analogie, per giungere a manifestarsi poi con ricchissime varianti, affermazioni, metafore, visioni, sentenze, similitudini, allegorie, usi e interpretazioni della parola che non mancano mai di stupire. Il punto di partenza è la constatazione di una forma o di un aspetto, di un’emozione, di una suggestione che la natura, la stagione o quant’altro trasmettono al suo repertorio. Un luogo anche minimo che la vita ci propone, e da lì, a poco a poco il discorso si sviluppa, quanto è stato visto o sentito si rivela come un messaggio, un emblema, perché il mondo non è quello che appare realistico e naturale, quando lo affronta il poeta lo sente ingannevole e denso di incognite, caotico, contraddittorio, e non è mai ingenua e sentimentale la poetica che origina da una sensibilità extra, quasi in interiore, scavando nelle ambiguità dell’essere la sostanza fruibile della sua bellezza e del suo canto. La poesia, quando c’è va al di là degli oggetti e delle apparenze visibili, è costituita da exsempla che sollecitano immediatamente ad essere identificati. 
La natura si rivela, allora, come una sequenza affollata di segni, di tracce e Ninnj Di Stefano Busà li mostra pressoché quali rivelazioni di malessere, di disagio, pur con le dovute aperture d’ali, pur con aureole solari, nel segno di luce o di tenebra esplicita la speranza, non è mai succube dell’oscuramento, mai refrattaria al cielo. Il raffronto fra le presenze naturali delle scoperte è il riconoscimento della condizione umana di pena, (il male di vivere montaliano), però, esistono in questa scrittrice. Penso al suo ultimo romanzo, alle sue ultime opere in poesia: “la giovinezza se n’è andata.” Sono i dati di un giorno di vita, che per la potenza e la forza del pensiero e della parola, si rivelano subito come visioni metaforiche di trafitture, di disagio, di pena, che l’anima coglie in piena consapevolezza del suo status, e ne esce profondamente turbata. La metafora assume la sua forma perfetta e mirabile non solo la realtà in sé conclusa. Continua la rappresentazione della parola alta, potente: “...........” sia in versi che in prosa. Vi è l’incrinarsi dell’essere, della vita, il trasfigurarsi nell’altro cielo, quello pacificato e rasserenato che è poi l’aspirazione frequente nel discorso poetico dell’autrice, ma a fronte ha sempre la consapevolezza della caducità, del dolore e della fatica del quotidiano, in ogni momento la razionalità e l’intelligenza del cuore (come elle stessa le definisce). C’è in questo impegni di scrittura l’aspirazione a un labile conforto, a un’apertura d’ala, a un cielo più sereno. L’allegoria è particolarmente grandiosa e rivelatrice: il nostro corpo è l’abito minimo, come la conchiglia che vagamente aspira alla grandezza del mare aperto. E lo spirito è partecipe del divino, e l’ascensione alla trasfigurazione celeste è difficile, precaria, contraddittoria, mai ampiamente conclusa, perché il mondo offre minimi episodi di chiarezza, pochi modelli di perfezione per il conforto del cuore. Per emblemi il discorso di Ninnj Di Stefano Busà giunge all’esemplarità dei concetti. Intorno c’è il turbinare delle apparenze, delle contraddizioni che appaiono forme e vicende della natura, degl’innumerevoli episodi o esperienze umane, e di fronte, ecco le sentenze, le verità, le aspirazioni e il dolore. Non è, (si badi bene) un giudizio e una considerazione sulla propria vicenda di vita e di pensiero, ma la suprema spiegazione più logica della condizione di tutti gli uomini, fra pena che trascina l’anima nella violenza confusa delle situazioni e il volo verso l’infinito, cui l’anima “semplicetta” di ogni individuo e di cui parla Dante è orientata.
Ma è la tensione irresistibile, eppure sempre così difficile, faticosa, delusa, ferita a drenare nell’autrice il privilegio della parola. La costruzione linguistica di Ninnj Di Stefano Busà è costantemente dichiarativa, per poi svolgersi fino alla sequenza degli emblemi, delle metafore che tendono ad accogliere da un testo all’altro, e da un libro all’altro, gli aspetti e le forme dell’esperienza esistenziale, che si mantengono sempre a livelli molto alti, (bontà della parola quando è vera!) con toni sacrali, ma anche dolorosi fino a concludersi in una compresenza di immagini, di indizi che anelano alla profondità dell’anima. Il discorso non è mai dettato dalla vicenda personale del poeta, ma si esplicita come significato universale, per i tempi e i luoghi che sono del tempo stesso di contraddizione, di crisi, di assenza di valori, e quasi privi del tutto del sacro e del sublime: versi....., che iniziano da un concetto generale, per piegare quasi subito dopo all’evocazione emblematica e naturalistica del mondo, come analogia con l’umano, e proprio con quella stagione che preannuncia il germoglio della rinascita.
Questo romanzo: Soltanto una vita, è, allora, un supremo modello di varianti che si commisura con l’abbondantissima logica del pensiero e delle proposte, uno spartito denso di concetti e di immagini, di indagini e scavi intorno all’esistente e all’assente. La scrittura di questa autrice è ben riconoscibile; è un florilegio che si avvale di un ritmo particolarmente efficace, fascinoso, che dà esiti felicemente raggiunti, ma è anche una lezione alta di letteratura per le molteplici varianti che adotta nell’elaborazione, le quali a seconda dell’esigenza del discorso, a volte, si contraggono o si prolungano, altre si armonizzano e si allineano ad atmosfere intensa, di grandissime aperture che fanno molto riflettere. Tutta la produzione di Ninnj Di Stefano Busà è un impianto straordinario, una costruzione verbale di grande afflato che stabilisce in modo forte e deciso la verità della poesia indefettibile, straordinaria, forte e potente. Questa scrittrice, lo andiamo ripetendo da anni ormai, è giunta a segnali altissimi di linguismo.

Giorgio Bàrberi Squarotti

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3 agosto 2014 7 03 /08 /agosto /2014 14:44

Soltanto una vita

di Ninnj Di Stefano Busà

Kairos Edizioni, Napoli, 2014

ISBN: 9788898029808

Pagine: 228

Costo: 14 €

 

Recensione di Lorenzo Spurio

 

Un messaggio di rigogliosa apertura mentale e di speranza è quello che fuoriesce dalla nuova fatica letteraria di Ninnj Di Stefano Busà, celebre poetessa che vanta di un curriculum letterario di tutto rispetto. La poetessa ha deciso di dedicarsi stavolta alla narrativa e lo ha fatto con grande padronanza stilistica e concettuale tanto che Soltanto una vita, questo il titolo del romanzo edito quest’anno da Kairos, può a ragione essere collocato in quel filone del romanzo tradizionalista che ha dominato per decenni la letteratura nostrana del Dopoguerra. Inutile dirlo, si avverte di continuo il tono lirico e appassionato, il coinvolgimento della scrittrice che narra, più che la consequenzialità dei nuclei d’azione, l’approfondimento dei caratteri e la resa dei relativi universi sensoriali e sentimentali. Un romanzo che copre un periodo di tempo abbastanza esteso e, proprio in ragione di questo, viene ad analizzare non tanto un personaggio calato nella sua dimensione sociale, lavorativa e affettiva, ma un’intera famiglia: come essa nasce dall’incontro accidentale immerso in uno scenario apocalittico di Julie e George, alla nascita della loro figlia che, poi, crescendo, darà origine a una sua famiglia.

Come si diceva, è il sentimento a dominare, l’esigenza di riscoprire la genuinità delle piccole cose, il ricorso necessario al colloquio, al confronto (ci sono molte parti dialogiche nel romanzo), l’intoccabile rispetto dell’altro, la fede in se stessi, la forza di volontà e il desiderio di accogliere l’esistenza come il bene più prezioso che va gioito, incarnato con ardore senza lasciarsi ammorbare dal buio che, pure, esiste.

La struttura del romanzo mi fa pensare a quei famosi “ribaltamenti di fortuna” dell’epica germanica (e poi anche delle fiabe grimmiane) dove a un periodo di tranquillità e felicità (l’incontro di Julie e George e il loro matrimonio) segue un evento infausto che obbliga le persone a rivedere la loro vita, a confessarsi con il Creato e il Creatore e a solidarizzare con la malattia (il tumore di Julie) o a soprassedere a una mancanza (la morte del primo bambino di Julie). E’ la forza di coraggio, l’amore, quel nutrimento fondamentale e necessario che va nutrito e coltivato e non lasciato stemperare nel tempo o lasciato ammorbare dalla tragedia a permettere di volta in volta quella risalita (a volte lenta e difficoltosa) che permetta un nuovo rinascimento. L’amore ne fuoriesce ancora più forte e la famiglia ancor più rinsaldata.

Non mancano in questo itinerario generazionale che la scrittrice ci fa fare, momenti di vera e propria devianza psichica e sociale che la scrittrice tratta con puntigliosa attenzione: dallo schizofrenico e pericoloso ragazzo di Julie all’apertura del romanzo, alla gelosa e caparbia prima moglie di George, personaggi che, pur localizzandosi in un prima temporale della coppia Julie-George lasciano di certo nei singoli personaggi una certa insoddisfazione e incredulità, addirittura una dilemma scoraggiante come è per George che dovrà, dopo anni e anni in cui la meschinità della ex compagna non ha conosciuto mai un addolcimento, riconquistare la fiducia del figlio allontanatogli mediante stratagemmi infami e che di certo hanno causato dolore anche al ragazzo.

La vita è fatta di luce ed ombre sembra dirci la scrittrice, ossia di piacere e dolore, di entusiasmo e scoraggiamento, di felicità e tragedia, ma sta all’uomo sapersi rialzare proprio grazie al suo spirito vitale improntato alla scoperta e alla conservazione del bene e al rigetto del vittimismo, dell’incupimento e della noia. Non sempre è facile, chiaramente ed è pure giusto osservare che non sempre una malattia può essere vinta riportando la famiglia alla sua serenità caratteristica prima della diagnosi, ma il messaggio di Ninnj Di Stefano Busà va oltre, analizzando con uno spessore psicologico impressionante cosa accade nei rapporti interpersonali quando subentra la minaccia, la sofferenza per la malattia, il timore di un lutto. A tutto ciò si contrappone un messaggio di speranza e di fede in sé stessi (che non necessariamente implica una fede anche in Dio anche se, come chiosa la scrittrice in chiusura, è bene non lasciarsi invischiare da pensieri ineluttabili quali il fatalismo anima).

Gli scenari esotici descritti con meticolosità tanto nella loro componente paesaggistica e silvestre quanto nelle loro caratterizzazioni climatiche, rendono questa narrazione ulteriormente speziata permettendo al lettore di non fossilizzarsi e attaccarsi mai troppo agli eventi contingenti quali può essere una vita consuetudinaria vissuta nella quotidianità della propria dimora, e di farlo spaziare, mettere in gioco, inaugurare una nuova dimora, viaggiare, farlo domandare e osservarlo da vicino come se fosse poi davvero un nostro parente con il quale soffriamo e gioiamo a seconda degli intervalli umorali che sono propri di quella esperienza sul mondo che la scrittrice condensa in quel “soltanto una vita” che poi, per ritornare alla vena poetica della Nostra, non è che un azzeccato ossimoro con il quale giocosamente e lucidamente ci consegna delle pagine di indubbia caratura letteraria e valore morale: “Viviamo l’amore! Non abbiamo molte vite, ce ne resta solo una, ed è molto breve!” (64).

 

                                                                                    Lorenzo Spurio

 

Jesi, 03.08.2014

 

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7 luglio 2014 1 07 /07 /luglio /2014 08:19

UN ROMANZO FILOSOFICO:

L’ESORDIO IN NARRATIVA DI NINNJ DI STEFANO BUSĂ

 

 

 

      Si direbbe un punto d’incontro, un coniugale convegno di più storie d’amore il romanzo d’esordio di Ninnj Di Stefano Busà. E lo è, indubbiamente, ma non è sufficiente ritenerlo tale per entrare davvero nel vivo, per calarsi in profondità nel dissertare: voglio dire che non è limitandosi alla considerazione del narrato che si possono cogliere gli aspetti più rilevanti dell’opera.

      In Soltanto una vita non è la trama che conta; sono le riflessioni di carattere filosofico-esistenziale, le conclusioni alle quali giungono - per l’autrice - i protagonisti, le esperienze che in loro maturano a creare l’intelaiatura che sostiene ciascuna vicenda. Sotto questo punto di vista, allora, la storia diventa - mi viene da dire - quasi un pretesto, una favorevole congiuntura perché possano essere indagate questioni da sempre presenti nella mente e nell’animo della misteriosa creatura uomo. Uno strumento di ricerca, dunque, che tenta l’universale tramite un processo induttivo (mi si passi il termine) che, una volta approdato al generale, non abbandona il particolare in quanto, esso stesso, espressione dell’assoluto. Così, gli episodi che si succedono di capitolo in capitolo altro non sono che manifestazioni della Vita, dei suoi alti e bassi, del suo naturale incedere: spesso contraddittorio, a volte (ma solo apparentemente) illogico, irrazionale, e però - o, meglio, proprio per questo - costantemente volto a tutelare il bene supremo che, in fin dei conti, è il miracolo più grande, ciò che perpetua l’esistenza stessa.

      Di quale inestimabile ricchezza si sta parlando? Ma certo, dell’Amore; di cos’altro se no? Di quello di dantesca memoria. Ecco: se la nuova fatica della nota scrittrice e poetessa si può, a giusto titolo, annoverare nella letteratura d’amore; ciò nondimeno questo va fatto con estremo riguardo, per non costringere il romanzo a vivere in ambiti che gli sarebbero inadeguati, per non dire estranei.

      Per rendere ancora più esplicito il pensiero, desidero riportare alcuni passi delle conclusioni cui Julie (personaggio centrale) giunge esperendo su se stessa la maternità. Le sue riflessioni (riportate in corsivo a pag. 61); sono così intense “da sembrare filosofia” - sostiene l’autrice -, a testimonianza di quanto sopra andavo asserendo sulla tipologia della presente scrittura. “L’amore è una tessitura sapiente, un’elevazione salvifica, sublimativa di un percorso che vuole penetrare il mistero dell’essere […] L’elemento amoroso dà all’eteronomia individuale la forza eternante della temporaneità, che rompe le catene della finitudine mortale, per evocare l’assoluto […] Ma è nella messa in gioco di un rischio fascinoso e sorprendente, che si compendia lo straordinario di un’avventura irripetibile: la ‘natività’, che è vita nella sua forma di elevazione pura. . .”. Senza dimenticare lo stupore che coglie la neo mamma al termine delle osservazioni: “non è utopistica la sua fantasia né immaginativa! È solo motivata da un bene che si autentica da sé, dalla discrezione primordiale di un bisogno che è stato l’inizio della vita.”.

      Mi sono dilungato perché mi piacerebbe che il lettore fosse orientato a recepire prioritariamente  le implicazioni sottese alla storia più che lo stesso racconto; intendiamoci: non che la narrazione non abbia la sua importanza - lo stile, tra l’altro, possiede un timbro peculiare e piena padronanza dei mezzi espressivi - ma sono convinto  che le pulsazioni provengono dal cuore, da tutto quello che dalla trama stilla come resina che cola lungo i rami.

      Anche se l’amore resta il momento topico, l’ambra dorata che colora le pagine, un discorso analogo va e deve essere sostenuto quando sono i luoghi, i paesaggi ad essere rappresentati con cura e dovizia di particolari: “Attraverso un descrittivismo naturalistico di rara perizia, che è anch’esso poesia, si snoda la storia dei protagonisti, la sagra dei sentimenti senza tempo. . .”. Ĕ quanto si legge nel risvolto di quarta: un’ulteriore conferma alle mie supposizioni; d’altro canto, è sufficiente prendere a modello alcuni brani incentrati sulla bellezza naturale per averne chiara percezione.

      Desidero, sinteticamente, riportare qualche breve stralcio della poetica descrizione dell’isolotto (a 3 km dalla costa) dove Gorge propone di recarsi per visitare, tra l’altro, le vestigia di un antichissimo agglomerato degli Incas: “. . . In quel luogo, tutto è un coro alla filosofia del creato […] Di colpo si sentono immersi in un’altra dimensione, la pace e il senso mistico della natura li prende, regalando loro momenti di cultura primitiva, di regole fatte a iniziazione del mondo, senza. . . i vizi e le corruzioni delle grandi metropoli […] Forse si tratta di una forma di atarassia […] Ha estremo bisogno l’uomo di oggi di vivere senza le scorie avvelenate di una eterodossia moderna che compromette il suo spirito.”. Per ovvie ragioni non posso citare oltre ma queste parole (pag. 161), mi appaiono importanti e sapide per intendere la portata umanistica del romanzo (“un’opera che va certamente controcorrente considerando i disvalori che, spesso, vengono propinati dalle letture di poca pregevolezza prese in considerazioni da case editrici cosiddette ‘grandi’”, osserva acutamente Nazario Pardini nella sua prefazione).

      Si tratta, dunque - per tornare agli aspetti descrittivi della narrazione - di un’esposizione non fine a se stessa, idilliaca o paradisiaca, bensì di un dire che mira a ben altri propositi, che ha intenzione d’immergersi nell’anima del mondo per penetrare, così, anche nell’animo umano.

      L’erotismo stesso è portato - se si vuole - su di un piano sublimativo che tiene ad evidenziare l’essenza del rapporto sessuale quale perfetta fusione tra carne e spirito; ed ancora, è molto interessante notare come, persino nei momenti di tanto piena beatitudine, venga riservata estrema attenzione ai sommovimenti improvvisi e contrastanti dell’animo, sollecitato dalla forza delle emozioni, dall’intensità del coinvolgimento.

      Esemplificativo ciò che si legge all’inizio di pag. 138 relativamente allo sgomento di Julie di fronte all’andamento altalenante del destino: ella teme - con saggezza primitiva, mi si lasci dire - la troppa felicità, perché l’esperienza le ha spesso dimostrato “che non prelude a nulla di buono”: una sorta di contrappasso cui è difficilissimo abituarsi ma che resta, pur sempre, legge universale, legge di natura.

      “Credere nella vita / vuol dire accettare anche il peso del suo dolore: / la vita è la distanza tra il grido e la ferita.”: con questo esergo la scrittrice apre, in un certo senso, l’opera. E come poteva chiuderla se non con un altro aforistico pensiero: “Siamo in fondo soltanto una vita, nient’altro”. In mezzo, oltre duecento pagine, nelle quali ritrovarsi, nelle quali ognuno di noi, per traslato, può riconoscere - pur nella diversità - la propria storia.

 

                                                                    Sandro Angelucci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ninnj Di Stefano Busà. Soltanto una vita. Kairόs Edizioni. Napoli. 2014. Pp.230. € 14,00

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15 giugno 2014 7 15 /06 /giugno /2014 16:27

Romanzo a sorpresa di Ninnj Di Stefano Busà

("Soltanto una vita" - Kairòs Edizioni)

 

di Franco Campegiani

 

Ninnj Di Stefano Busà - lo sappiamo -  è una delle più accreditate firme della pagina poetica nazionale. Notissima come poetessa ed anche come critico letterario, oggi ci sorprende con questo testo pubblicato dalla Kairòs di Napoli e prefato dall'illustre Prof. Nazario Pardini, affrontando un genere di scrittura per lei nuovo, la narrativa. Una vera e propria curiosità, pertanto. Una primizia, non soltanto per i suoi lettori abituali, ma anche per un pubblico più vasto, maggiormente sensibile verso questo genere di letteratura. "Soltanto una vita" è un romanzo molto particolare, dove lo stile narrativo si arricchisce di una vena poetica sempre fresca e felice, in una scrittura limpida e comunicativa, intrisa di profonde riflessioni filosofiche. Qualunque genere affronti, la penna della Busà ha le medesime caratteristiche: è poetica e filosofica nello stesso tempo.

Chi conosce la sua poesia sa che essa è profondamente pensosa. La sua prosa, viceversa, risulta intrisa di poesia, e ciò contraddice il luogo comune secondo cui il filosofo ed il poeta non sarebbero compatibili tra di loro. Evidentemente c'è un pensiero filosofico che si radica nella poesia (non razionalistico), così come c'è un sentimento poetico radicato nella filosofia (non sentimentalistico). Ma qual'è il tratto veramente innovativo di questa scrittura? Della contemporaneità condivide l'aspetto fondante, e cioè il senso del relativo: il sentimento doloroso del limite proprio di ogni avventura esistenziale; la precarietà e l'angoscia del vivere; la coscienza della consunzione, del logoramento, della fine. Ma tutto ciò in Ninnj si incontra e si scontra con un vivo desiderio dell'incorruttibile e dell'assoluto, dando vita ad una pagina letteraria incandescente, dove ad animarsi è il fantasma della frattura, fantasma che paradossalmente evoca la reciproca appartenenza dei due poli tra di loro.

Ne vengono sfinimenti, sconfitte, ma insieme rinascite interiori, nella consapevolezza di appartenere ad un disegno universale inconoscibile, cui tuttavia ci si affida religiosamente. Una religiosità, direi, di ascendenze keerkegaardiane, dove la separazione del divino dall'umano funge paradossalmente da propellente della fede, nella certezza di un ritorno nel cuore dell'eterno al termine dell'avventura esistenziale. E sono esattamente questi i temi che emergono anche nel romanzo di cui ora ci occupiamo. "Soltanto una vita" è la storia di una famiglia colpita da gravi sventure, ma capace di reagire e di risorgere dalle ferite con rinnovati slanci ed invincibili ardori, facendo ricorso all'amore in tutte le coniugazioni possibili, ma soprattutto puntando lo sguardo verso l'assoluto, che è e resta la vera fonte battesimale di ognuno di noi, come di ogni espressione vivente.

Potrebbe sembrare, questo, un facile ed ingenuo ottimismo per tanti intellettuali à la page, pronti ad arricciare il naso di fronte a tutto ciò che ha sapore di incanto, di innocenza, di purezza, di positività. Si ritengono scaltri e smaliziati, costoro, mentre invece hanno paraocchi che non consentono di vedere come positivo e negativo, incanto e disincanto, non sono altro che facce distinte d'una stessa medaglia. E in fondo hanno pregiudizi simili a quelli dei cosiddetti "incantati", degli imbambolati, seppure di segno contrario. Entrambi separano spocchiosamente il Nero dal Bianco, il Bene dal Male. Al contrario, l'incanto di cui parla la Busà non esclude il disincanto, ma lo include entro i propri confini. E' un incanto che si fa carico del disincanto, una gioia che porta sulle proprie spalle il dolore. E lo fa senza battere ciglio, come risulta fin dalla frase posta ad esergo del libro: "Credere nella vita / vuol dire accettare anche il peso del suo dolore".

Il bianco non esclude il nero, della cui vicinanza ha bisogno proprio per potersene differenziare. Altrettanto il Bene, per crescere, ha bisogno del Male con il quale si deve confrontare. Non lo può eludere, ma se ne deve alimentare. C'è dunque un Male che fa Bene, un Male che contribuisce alla costruzione della coscienza, anziché alla sua distruzione. Intendo dire che gli orizzonti della scrittrice sono di ordine morale, non moralistico. La differenza è fondamentale, perché dove il moralismo divide, la moralità abbraccia tutto con ineffabile amore.  E sono davvero tanti gli spunti che potrebbero essere estrapolati dal libro per convalidare l'assunto.

Mi limito a citare le frasi finali del testo, che trovo particolarmente illuminanti e significative: "Le risorse stanno in noi, basta saperle cogliere, diramarle, veicolarle e trasmetterle ai nostri figli, senza ostentazione o vanità, con efficacia e semplicità, senza tentennamenti... Veniamo al mondo per amarla questa vita, l'unica che abbiamo, non per opporci ad essa o per oltraggiarla, e se talvolta ne veniamo feriti, ebbene si, tiriamo fuori tutto il coraggio, l'ardimento, la forza morale di cui siamo capaci per lottare strenuamente contro il male". Una lotta che è anche un abbraccio, come si può vedere, perché il male vissuto in tal modo finisce per essere mirabilmente costruttivo. E sta qui, direi, l'ulissismo di questa visione della vita.

La cultura contemporanea, approdata da tempo ai temi del Nulla, del Nonsenso e del Vuoto, del Naufragio a senso unico, gronda a mio parere di orfismo ed ha bisogno di incrementare quella fede nei valori positivi il cui depositario è Odisseo. Cosa fa invece Orfeo? Caduto in disgrazia, finisce nella disperazione e nella follia, mentre Ulisse, a dispetto delle sconfitte, è sempre spinto in mare aperto con rinnovati ardori. Egli non è un vincente, ma neppure un perdente. E' vincente e perdente nello stesso tempo. E' un eroe/antieroe. Conosce frustrazioni e naufragi, per cui non ha alcunché di arrogante o presuntuoso. Non è un drago sputafuoco ed è umilissimo nella sua fierezza, tant'è che si fa chiamare Nessuno. E' un Nulla e un Tutto nello stesso tempo, una forza dell'equilibrio, una potenza della Natura.

Credetemi: queste digressioni non sono peregrine, ma fondamentali per mettere a fuoco la weltanschauung della nostra scrittrice. C’è un’esperienza letteraria importante, nel panorama culturale sostanzialmente orfico dei tempi attuali, che in qualche modo raggiunge l’ulissismo e di cui è qui opportuno parlare. Mi riferisco a Giuseppe Ungaretti. Ricordiamo i famosi versi dell’Allegria? “E subito riprende / il viaggio / come /  dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”? Ebbene la visione del mondo della nostra scrittrice si trova su questo stesso binario, in questa medesima lunghezza d'onda. E' una fede nella vita che cresce e si rafforza con l'esperienza del dolore. E a questo punto è opportuno a mio avviso ricordare un'altro importante percorso letterario ed umano, davvero odissiaco, dei tempi attuali: quello di Alda Merini, di cui non a caso la Di Stefano Busà è stata confidente ed amica.

Questo romanzo, "Soltanto una vita", propaga fin dal titolo le atmosfere di cui stiamo parlando, sospese tra il chiaro e lo scuro, tra l'assoluto e il relativo. Gli attori vivono nella consapevolezza che la loro è soltanto una vita, solo una tessera nell'immenso mosaico della vita universale. E la vivono, questa loro unica vita, dando il meglio di sé, con il massimo impegno, senza sprecarla, ma senza tuttavia sopravvalutarsi, senza illudersi di essere i protagonisti esclusivi della scena. Si impegnano allo spasimo, non sono fatalisti, ma sanno anche affidarsi al flusso provvidenziale, misterioso e intelligente delle cose.

E qui devo chiedervi un surplus di attenzione, perché qui si giuoca, a parer mio, un passaggio particolarmente importante per la cultura del nostro tempo. Siamo nel Postmoderno, dove l'antropocentrismo in ogni sua forma è crollato e l'umanità ha finito per disperdersi dal centro nelle periferie del creato. Ebbene, a me sembra che nella storia che Ninnj descrive, i protagonisti facciano un percorso alternativo, sperimentando un'altra e diversa centralità: la centralità di se stessi. Così l'uomo, non più al centro dell'universo, qui è posto, o si pone, al centro di se stesso. E' un Tutto e un Nulla: umiltà e fierezza fuse in un solo respiro. E la sua è soltanto una vita nel pullulare sconfinato di vite di cui si popola l'universo.

E dire che i protagonisti sono personaggi molto potenti! Appartengono all'alta società: sono direttori di banca, ingegneri petroliferi, manager, e tuttavia non insuperbiscono. Il che è straordinario. Nell'immaginario collettivo, lo sappiamo, questo ceto sociale naviga negli ori e nei privilegi, nelle feste e nei lussi sfrenati, per non dire dell'affarismo spericolato. Qui si fa portatore, invece, di impegno etico, di morigeratezza, di affetti limpidi, di valori morali. E tutto senza cedimenti retorici: una rivoluzione!

Ricordiamo il detto evangelico? "E' più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel Regno dei Cieli"? Questo romanzo sembrerebbe smentire l'assunto, ma in realtà lo conferma, in quanto il motto suddetto evidenzia la difficoltà per i potenti, non l'impossibilità, di vivere con sentimenti di rispetto e di altruismo, di fraternità e di amore (difficoltà, d'altro canto, comune agli uomini e alle donne di qualunque ceto e posizione sociale). "Soltanto una vita" è il racconto edificante dei buoni sentimenti e dei valori positivi. Il tutto sudato e pianto. Non regalato, ma conquistato al prezzo di dure battaglie.

Il romanzo si apre con una descrizione paesistica stupefacente. Siamo nella Tierra del Fuego, all'estremità meridionale del continente americano, tra lo stretto di Magellano e Capo Hoorn. Un'alba rosata si dipinge sull'ampia baia dopo l'orribile nubifragio notturno. Da un lato le colline solenni, dall'altro l'oceano atlantico che "si apre come una valva sul fondale lussureggiante di un'immensa esplosione di luce". Un vero e proprio rapimento estatico di fronte alla bellezza selvaggia di una natura incontaminata, crudele e dolcissima nello stesso tempo. E' lo scenario adatto per porre il lettore nella condizione psicologica idonea ad entrare nelle pieghe del romanzo, tutto giuocato, come abbiamo visto, sulla compenetrazione armonica del positivo con il negativo, dell'ordine con il caos. C'è un parallelismo calzante tra le vicissitudini violente, ma rigeneranti, del creato e gli eventi dolorosi, ma corroboranti, dell'esistenza umana.

Nazario Pardini, in prefazione, parla di "un grande mélange di cospirazioni naturistiche, di panorami mozzafiato, di forze evocative, di scavi psicologici e di intrighi che mai si allontanano da una verità, specchio dei nostri giorni". Realismo, dunque. Un realismo vitalistico, energetico, diverso da quelle scuole del realismo che indulgono al pessimismo, al disincanto, al trionfo dello squallore e del Nero. Ascoltate questa descrizione: "Sulla sabbia sono ancora evidenti i segni lasciati dalle raffiche di vento; disseminata di oggetti dei più disparati, la spiaggia appare come uno scenario infernale; sparsi un po' ovunque, in modo disordinato e violento, vi sono i segni di una lotta all'ultimo sangue, con quegli elementi che la natura ha scaraventato in aria e ammassato alla rinfusa". E' da questa violenza che la natura si rigenera, dando origine a nuove aspettative e a nuovi cicli vitali.

La stessa cosa accade negli eventi degli uomini, dove il lieto fine non è scontato, ma può anche esserci, come in questo caso, ed è il frutto di un impegno strenuo e costante, di una fede non astratta ma vissuta sulla propria pelle, andando molto oltre la ragionevolezza umana. Tra Julie Lopez e George Martinez, dopo molte sofferenze, scocca le sue frecce Cupido. E la Busà registra il suono festoso delle campane del cuore in pagine ricche di estraniante fascinazione: "Tutto ora sembra presagire un lieto fine: sentono di possedere l'apertura alare delle aquile che sorvolano il cielo privo di nubi, una pacificazione interiore che rinforza gli argini e inibisce i malumori, concilia con il mondo intero, che pare ovattato, quasi insonorizzato, per loro, che hanno attraversato lo Stige a piedi, lacerandosi l'anima, e ne riportano ancora le ferite, le escoriazioni, le abrasioni".

Ed è stupenda, successivamente, la descrizione di Julie, dopo aver superato la prova di un triste aborto: "Hanno strani riflessi quegli occhi! Contornati da pagliuzze dorate, hanno lo scintillio incomparabile di una riverberazione dal profondo. Parlano il linguaggio del cuore, la lunga discesa negli Inferi, la risalita lenta e faticosa di chi ha tanto sofferto e amato". I due protagonisti, successivamente, avranno figli e nipoti, tanto che la trama sembra assumere l'andamento di una saga. Una saga il cui mito centrale è l'amore: l'amore sofferto e non sdolcinato, l'amore che è sempre un dolce intriso di amaro. Perché bisogna costruirlo l'amore, e non aspettarlo da altri, bisogna crederci fino in fondo, farselo crescere dentro e poi donarlo.

Scrive la Busà: "L'amore vero ci vive dentro, mai nei paraggi, né di sghembo o nelle vicinanze"; "L'amore s'impara: giorno per giorno, momento per momento, nulla è dato per scontato". E le pagine più belle sono a mio parere quelle che nascono osservando una gestante, una donna, pensate, che si spezza come il pane per donare la vita ad un altro essere. Ci sono riflessioni formidabili, come questa: "Mettere al mondo una creatura è... mettersi in contatto con l'eternità... L'antinomia fondamentale dell'amore risiede nella frenesia del mordi e fuggi, nel dilatare il significato esteriore a sfavore di quello interiore". E non è, questa, non vuole essere, una teoria sull'amore, ma il puro e semplice maturato di conoscenze di vita fatte da una neo-mamma, da una puerpera che parla e sussurra a se stessa: "Viviamolo l'amore! Non abbiamo molte vite, ce ne resta solo una, ed è molto breve!". Soltanto una vita, appunto.

 

 

                                                                     Franco Campegiani

 

 

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23 maggio 2014 5 23 /05 /maggio /2014 22:11
-A SORPRESA-  LA GRANDE POETESSA SI PRESENTA OGGI NELLE VESTI DI NARRATRICE
FRANCO CAMPEGIANI a: SOLTANTO UNA VITA", di Ninnj Di STEFANO BUSA'
A CURA DI FRANCO CAMPEGIANI

FRANCO CAMPEGIANI
COLLABORATORE DI LEUCADE





Romanzo a sorpresa di Ninnj Di Stefano Busà
("Soltanto una vita" - Kairòs Edizioni)
Ninnj Di Stefano Busà - lo sappiamo - è una delle più accreditate firme della pagina poetica nazionale. Notissima come poetessa ed anche come critico letterario, oggi ci sorprende con questo testo pubblicato dalla Kairòs di Napoli e prefato dall'illustre Prof. Nazario Pardini, affrontando un genere di scrittura per lei nuovo, la narrativa. Una vera e propria curiosità, pertanto. Una primizia, non soltanto per i suoi lettori abituali, ma anche per un pubblico più vasto, maggiormente sensibile verso questo genere di letteratura. "Soltanto una vita" è un romanzo molto particolare, dove lo stile narrativo si arricchisce di una vena poetica sempre fresca e felice, in una scrittura limpida e comunicativa, intrisa di profonde riflessioni filosofiche. Qualunque genere affronti, la penna della Busà ha le medesime caratteristiche: è poetica e filosofica nello stesso tempo.


Chi conosce la sua poesia sa che essa è profondamente pensosa. La sua prosa, viceversa, risulta intrisa di poesia, e ciò contraddice il luogo comune secondo cui il filosofo ed il poeta non sarebbero compatibili tra di loro. Evidentemente c'è un pensiero filosofico che si radica nella poesia (non razionalistico), così come c'è un sentimento poetico radicato nella filosofia (non sentimentalistico). Ma qual'è il tratto veramente innovativo di questa scrittura? Della contemporaneità condivide l'aspetto fondante, e cioè il senso del relativo: il sentimento doloroso del limite proprio di ogni avventura esistenziale; la precarietà e l'angoscia del vivere; la coscienza della consunzione, del logoramento, della fine. Ma tutto ciò in Ninnj si incontra e si scontra con un vivo desiderio dell'incorruttibile e dell'assoluto, dando vita ad una pagina letteraria incandescente, dove ad animarsi è il fantasma della frattura, fantasma che paradossalmente evoca la reciproca appartenenza dei due poli tra di loro.
Ne vengono sfinimenti, sconfitte, ma insieme rinascite interiori, nella consapevolezza di appartenere ad un disegno universale inconoscibile, cui tuttavia ci si affida religiosamente. Una religiosità, direi, di ascendenze keerkegaardiane, dove la separazione del divino dall'umano funge paradossalmente da propellente della fede, nella certezza di un ritorno nel cuore dell'eterno al termine dell'avventura esistenziale. E sono esattamente questi i temi che emergono anche nel romanzo di cui ora ci occupiamo. "Soltanto una vita" è la storia di una famiglia colpita da gravi sventure, ma capace di reagire e di risorgere dalle ferite con rinnovati slanci ed invincibili ardori, facendo ricorso all'amore in tutte le coniugazioni possibili, ma soprattutto puntando lo sguardo verso l'assoluto, che è e resta la vera fonte battesimale di ognuno di noi, come di ogni espressione vivente.


Potrebbe sembrare, questo, un facile ed ingenuo ottimismo per tanti intellettuali à la page, pronti ad arricciare il naso di fronte a tutto ciò che ha sapore di incanto, di innocenza, di purezza, di positività. Si ritengono scaltri e smaliziati, costoro, mentre invece hanno paraocchi che non consentono di vedere come positivo e negativo, incanto e disincanto, non sono altro che facce distinte d'una stessa medaglia. E in fondo hanno pregiudizi simili a quelli dei cosiddetti "incantati", degli imbambolati, seppure di segno contrario. Entrambi separano spocchiosamente il Nero dal Bianco, il Bene dal Male. Al contrario, l'incanto di cui parla la Busà non esclude il disincanto, ma lo include entro i propri confini. E' un incanto che si fa carico del disincanto, una gioia che porta sulle proprie spalle il dolore. E lo fa senza battere ciglio, come risulta fin dalla frase posta ad esergo del libro: "Credere nella vita / vuol dire accettare anche il peso del suo dolore".
Il bianco non esclude il nero, della cui vicinanza ha bisogno proprio per potersene differenziare. Altrettanto il Bene, per crescere, ha bisogno del Male con il quale si deve confrontare. Non lo può eludere, ma se ne deve alimentare. C'è dunque un Male che fa Bene, un Male che contribuisce alla costruzione della coscienza, anziché alla sua distruzione. Intendo dire che gli orizzonti della scrittrice sono di ordine morale, non moralistico. La differenza è fondamentale, perché dove il moralismo divide, la moralità abbraccia tutto con ineffabile amore.  E sono davvero tanti gli spunti che potrebbero essere estrapolati dal libro per convalidare l'assunto.
Mi limito a citare le frasi finali del testo, che trovo particolarmente illuminanti e significative: "Le risorse stanno in noi, basta saperle cogliere, diramarle, veicolarle e trasmetterle ai nostri figli, senza ostentazione o vanità, con efficacia e semplicità, senza tentennamenti... Veniamo al mondo per amarla questa vita, l'unica che abbiamo, non per opporci ad essa o per oltraggiarla, e se talvolta ne veniamo feriti, ebbene si, tiriamo fuori tutto il coraggio, l'ardimento, la forza morale di cui siamo capaci per lottare strenuamente contro il male". Una lotta che è anche un abbraccio, come si può vedere, perché il male vissuto in tal modo finisce per essere mirabilmente costruttivo. E sta qui, direi, l'ulissismo di questa visione della vita.
La cultura contemporanea, approdata da tempo ai temi del Nulla, del Nonsenso e del Vuoto, del Naufragio a senso unico, gronda a mio parere di orfismo ed ha bisogno di incrementare quella fede nei valori positivi il cui depositario è Odisseo. Cosa fa invece Orfeo? Caduto in disgrazia, finisce nella disperazione e nella follia, mentre Ulisse, a dispetto delle sconfitte, è sempre spinto in mare aperto con rinnovati ardori. Tuttavia egli conosce frustrazioni e naufragi, per cui non ha alcunché di tronfio, di arrogante o presuntuoso. Non è un drago sputafuoco ed è umilissimo nella sua fierezza, tant'è che si fa chiamare Nessuno. E' un Nulla e un Tutto nello stesso tempo, una forza dell'equilibrio, una potenza della Natura. E credetemi: queste digressioni non sono peregrine, ma fondamentali per mettere a fuoco la weltanschauung della nostra scrittrice.
C’è un’esperienza letteraria importante, nel panorama culturale sostanzialmente orfico dei tempi attuali, che in qualche modo raggiunge l’ulissismo e di cui è qui opportuno parlare. Mi riferisco a Giuseppe Ungaretti. Ricordiamo i famosi versi dell’Allegria? “E subito riprende / il viaggio / come /  dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”? Ebbene la visione del mondo della nostra scrittrice si trova su questo stesso binario, in questa medesima lunghezza d'onda. E' una fede nella vita che cresce e si rafforza con l'esperienza del dolore. E a questo punto è opportuno a mio avviso ricordare un'altro importante percorso letterario ed umano, davvero odisseico, dei tempi attuali: quello di Alda Merini, di cui non a caso la Di Stefano Busà è stata confidente ed amica.
E qui si giuoca, a parer mio, un passaggio particolarmente importante per la cultura del nostro tempo. Siamo nel Postmoderno, dove l'antropocentrismo in ogni sua forma è crollato e l'umanità ha finito per disperdersi dal centro nelle periferie del creato. Ebbene, a me sembra che nella storia che Ninnj descrive, i protagonisti facciano un percorso alternativo, sperimentando un'altra e diversa centralità: la centralità di se stessi. Così l'uomo, non più al centro dell'universo, qui è posto, o si pone, al centro di se stesso. E la sua è soltanto una vita nel pullulare sconfinato di vite di cui si popola l'universo. Gli attori di questo romanzo vivono nella consapevolezza che la loro è soltanto una vita, solo una tessera nell'immenso mosaico. Danno il meglio di sé, con il massimo impegno, senza tuttavia sopravvalutarsi, senza illudersi di essere i protagonisti esclusivi della scena.
E dire che sono personaggi molto potenti! Appartengono all'alta società, sono direttori di banca, ingegneri petroliferi, manager. Ma non insuperbiscono, il che è straordinario. Nell'immaginario collettivo, lo sappiamo, questo ceto sociale naviga negli ori e nei privilegi, nelle feste e nei lussi sfrenati, per non dire dell'affarismo spericolato. Qui si fa portatore, invece, di impegno etico, di morigeratezza, di affetti limpidi, di valori morali. E tutto senza cedimenti retorici. Una rivoluzione! Ricordiamo il detto evangelico? "E' più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel Regno dei Cieli"? Questo romanzo sembrerebbe smentire l'assunto, ma in realtà lo conferma, in quanto il motto suddetto evidenzia la difficoltà per i potenti, non l'impossibilità, di vivere con sentimenti di rispetto e di altruismo, di fraternità e di amore (difficoltà, d'altro canto, comune agli uomini e alle donne di qualunque ceto e posizione sociale).
Il romanzo si apre con una descrizione paesistica stupefacente. Siamo nella Tierra del Fuego, all'estremità meridionale del continente americano, tra lo stretto di Magellano e Capo Hoorn. Un'alba rosata si dipinge sull'ampia baia dopo l'orribile nubifragio notturno. Da un lato le colline solenni, dall'altro l'oceano atlantico che "si apre come una valva sul fondale lussureggiante di un'immensa esplosione di luce". Un vero e proprio rapimento estatico di fronte alla bellezza selvaggia di una natura incontaminata, crudele e dolcissima nello stesso tempo. E' lo scenario adatto per porre il lettore nella condizione psicologica idonea ad entrare nelle pieghe del romanzo, tutto giuocato, come abbiamo visto, sulla compenetrazione armonica del positivo con il negativo. C'è un parallelismo calzante tra le vicissitudini violente, ma rigeneranti, del creato e gli eventi dolorosi, ma corroboranti, dell'esistenza umana.
Nazario Pardini, in prefazione, parla di "un grande mélange di cospirazioni naturistiche, di panorami mozzafiato, di forze evocative, di scavi psicologici e di intrighi che mai si allontanano da una verità, specchio dei nostri giorni". Realismo, dunque. Un realismo vitalistico, energetico, diverso da quelle scuole del realismo che indulgono al pessimismo, al disincanto, al trionfo dello squallore e del Nero. Ascoltate questa descrizione: "Sulla sabbia sono ancora evidenti i segni lasciati dalle raffiche di vento; disseminata di oggetti dei più disparati, la spiaggia appare come uno scenario infernale; sparsi un po' ovunque, in modo disordinato e violento, vi sono i segni di una lotta all'ultimo sangue, con quegli elementi che la natura ha scaraventato in aria e ammassato alla rinfusa". E' da questa violenza che la natura si rigenera, dando origine a nuove aspettative e a nuovi cicli vitali.
La stessa cosa accade negli eventi della vita umana, dove il lieto fine non è scontato, ma può anche esserci, come in questo caso, ed è il frutto di un impegno strenuo e costante, di una fede non astratta ma vissuta sulla propria pelle, andando molto oltre la ragionevolezza umana. Tra Julie Lopez e George Martinez, dopo molte sofferenze, scocca le sue frecce Cupido. E la Busà registra il suono festoso delle campane del cuore in pagine ricche di estraniante fascinazione: "Tutto ora sembra presagire un lieto fine: sentono di possedere l'apertura alare delle aquile che sorvolano il cielo privo di nubi, una pacificazione interiore che rinforza gli argini e inibisce i malumori, concilia con il mondo intero, che pare ovattato, quasi insonorizzato, per loro, che hanno attraversato lo Stige a piedi, lacerandosi l'anima, e ne riportano ancora le ferite, le escoriazioni, le abrasioni".
Ed è stupenda, successivamente, la descrizione di Julie, dopo aver superato la prova di un triste aborto: "Hanno strani riflessi quegli occhi! Contornati da pagliuzze dorate, hanno lo scintillio incomparabile di una riverberazione dal profondo. Parlano il linguaggio del cuore, la lunga discesa negli Inferi, la risalita lenta e faticosa di chi ha tanto sofferto e amato". I due protagonisti, successivamente, avranno figli e nipoti, tanto che la trama sembra assumere l'andamento di una saga. Una saga il cui mito centrale è l'amore: l'amore sofferto e non sdolcinato, l'amore che è sempre un dolce intriso di amaro. Perché bisogna costruirlo l'amore, e non aspettarlo da altri, bisogna crederci fino in fondo, farselo crescere dentro e poi donarlo.


Scrive la Busà: "L'amore vero ci vive dentro, mai nei paraggi, né di sghembo o nelle vicinanze"; "L'amore s'impara: giorno per giorno, momento per momento, nulla è dato per scontato". E le pagine più belle sono a mio parere quelle che nascono osservando una gestante, una donna capace di spezzarsi come il pane per donare la vita ad un altro essere. Ci sono riflessioni formidabili, come la seguente: "Mettere al mondo una creatura è... mettersi in contatto con l'eternità... L'antinomia fondamentale dell'amore risiede nella frenesia del mordi e fuggi, nel dilatare il significato esteriore a sfavore di quello interiore". E non è, questa - non vuole esserlo - una teoria sull'amore, ma il puro e semplice maturato di conoscenze di vita di una neo-mamma, di una puerpera che parla e sussurra a se stessa: "Viviamolo l'amore! Non abbiamo molte vite, ce ne resta solo una, ed è molto breve!". Soltanto una vita, appunto.

                              Franco Campegiani
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