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18 marzo 2013 1 18 /03 /marzo /2013 16:43

 

 di Ninnj Di Stefano Busà

 

Una poesia di stampo religioso si direbbe, che il tono altamente lirico mette in evidenza, s’intravede sin dal primo incipit: “ho sete di Dio/.../ se io non sapessi, se non conoscessi/ le albe di luce/ e i tramonti infuocati/ della sua trascendenza/ questa brama che m’arde/ non sarebbe incessante.”

Il poeta dunque avverte un richiamo dall’alto che coincide con una sete di Assoluto inestinguibile.

La necessità di elevazione dalle rovine e dalle macerie, dalle frane umane gli fa dire con un certo riferimento logico e sincero che la sua “ribellione ha bisogno di cielo”.

Ma poi perché questo bisogno estremo di purifcazione? di motivare religiosamente e misticamente il richiamo di Dio? evocarlo dalle tenebre fonde che attanagliano l’uomo moderno? Se ne avverte estremo bisogno, ci trafigge la sua assenza, ci condiziona la perenne latitanza dalla sua ineguagliabile fonte di verità e di bene. Ecco, in sintesi, il motivo di tale disperante disattenzione si proietta come una catabasi per le nostre misere forze e ci fa desiderare evocarne le sue estatiche forme, le sue prospettiche verità...

Il poeta ambisce ad una prospettiva di luce che condona e perdona ogni atto contronatura, ogni affronto volto a Dio è come perpetuarne le nefandezze, le brutture dell’umana stirpe. Perciò Angelucci sogna una vela in mezzo alla tempesta, uno sgrondo di acqua pura che deterga il peccato originale che ci segna dalla nascita, ma anche ci assolva da tutte le abominevoli scelleratezze dell’uomo dentro una miserevole e inaudita violenza perpetrata alla natura e alla vita.

Si vive in una landa deserta, nella solitudine dei vinti, nella quale ci appare “estrema” la terra in cui viviamo, esplicitamente si avverte il senso di esilio.

Non vi appaiono le condizioni del superamento e neppure di una felicità minima, seppure appannata.

Dentro un pensiero che riprende una visione confessionale vi è perciò il segno tenace che fa riferimento ad un <altrove>, ad un alter ego ricercato e amato nel suo lungo itinere dolorosamente umano. Questa raccolta lirica di Angelucci appare un diario intimo e vocativo di una visione di Assoluto mistero, in cui si trasfigura e si delinea un’idea di infinito riscatto, una preghiera che appare pregna di quella luce divina che andiamo evocando: una forma di vita entro la vita, in ogni minimo anfratto dell’anima, in ogni angolo nascosto del nostro sentire e agire: “Dentro di me tu sei”. Si ammette da parte dell’autore palesemente una sorta di palingenesi/ascensionale di un’Entità o Ente che corrisponda al Divino dentro le fibre dell’essere, pur se l’anima ambisce a precisi richiami, a colloqui ravvicinati con la divinità.

La parola di Angelucci non è mai evangelica, ma laica. Dentro un itinerario illuminante che coinvolge i momenti alti di una ricerca interiore, vi è l’uomo con le sue debolezze, le sue fragilità, le contraddizioni, che lo coinvolgono in uno stato di indigenza spirituale segnato dall’angoscia del camminamento al buio, che tuttavia riesce infine a traguardare il pensiero della fede, ponendosi in sintonia con l’universo. Gli accenti sono drammatici perché si percepisce dal linguismo moderno e asciutto l’intenzione di esibire un brandello di “grazia” da allineare alla percezione-intuizione di un cammino terreno che pur dall’emarginazione trae la riflessione per un dolore meno cupo. E’ qui che il pensiero di Dio rinfocola la speranza, fa meno dura la lotta quotidiana, la perdita di ogni bene.

Pensiero “poetante” che si confronta con l’itinerarium mentis e ne rimane folgorato: Dio c’è, Dio è nella verticalità (da qui il titolo) più sacra e umana del desiderio umano, ogni uomo arde di sete al suo cospetto, perchè è anima espiante, intrappolata nella tenebra, impossibilitata alla visione dell’Oltre, alla quale può giungere al compimento del percorso terreno, dopo indicibili lotte e sofferenze:  Perché c’è un’altra terra/ per le mie radici/ e un altro cielo/ per i miei germogli.”


 

 

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27 novembre 2012 2 27 /11 /novembre /2012 09:23

il valore poetico di Ninnj Di Stefano Busà

 

a cura di Selim Tietto 

 

Ne hanno parlato a pieno titolo i più prestigiosi critici dell'agone contemporaneo a cominciare da Salvatore Quasimodo suo corregionale e amico che la incoraggiò a continuare, si sono avvicendati via via Carlo Bo, Giovanni Raboni, Marco Forti, Giuliano Manacorda, Emerico Giachery, Giorgio Bàrberi Squarotti, Alda Merini, Dante Maffìa, Francesco D'Episcopo, Attilio Bertolucci, Fulvio Tomizza, Walter Mauro, Arturo Schwarz, Plinio Perilli. Tutti ne hanno dato un giudizio schietto e appassionato. Firme tra le più significative si sono occupate della sua opera e in vero, la sua produzione poetica si segnala nell’ambito dell’espressione più genuina ed eloquente dei nostri anni. Viene pertanto a ragione il saggio di Rosa Berti Sabbieti (essa stessa pregevole poetessa e fine scrittrice) dall’indovinato titolo “L’ala del condor”. Perché non esiste solo (per fortuna) il mondo chiuso dei celebrati. C’è tutto un patrimonio che circola, spesso in semiclandestinità, al quale la cultura vera è da sempre debitrice, e al quale tutti dobbiamo qualcosa. È bene non sottacerlo.

 

 

Nel caso specifico, poi, non si tratta certo di accento secondario. Il linguaggio poetico della Di Stefano Busà, infatti, si connota per un respiro ampio e oseremmo dire “universale” dei suoi versi, per una elevata polisemia, per la continua in-venzione, per la sua estetica felice, per il filosofico stupore dei simboli: per quell’originalità, in estrema sintesi, che fa della parola un dono di poesia quale costante ri-creazione.

Rinvenirne l’ordine, allora, stenderne le coordinate, evidenziarne l’autonomia e il carattere, così come ha fatto la Berti Sabbieti, diventa ufficio di non poco conto e di ragguardevole impegno. E la saggista ha senza dubbio raggiunto lo scopo se riesce – com’è riuscita – a mettere a dimora il filo della critica, a catalogare le virtualità, a farci verificare la misura: a darci, insomma, un’autentica economia di lettura, anche attraverso l’illuminazione dei luoghi.

Certamente “viaggio itinerante”: ma solo rispetto alla mole del quanto ci sarebbe da evidenziare nel complessivo panorama della Di Stefano. Un “viaggio” però che rende, almeno in parte, giustizia ad una voce alta di questo tempo, e che come poche altre è destinata a non cadere nell’oblio che solitamente tocca a chi fa esercizio d’alta voce. Un “itinerario” che meritava la cura d’essere delineato

.

 

 

 

 

 

 

 

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4 novembre 2012 7 04 /11 /novembre /2012 09:33

 

 Franco Casadei: Il Bianco delle vele, Raffaelli Editore, Rimini, 2012-11-04

                                         

                                               di Ninnj Di Stefano Busà

 

 

La voce lirica di Franco Casadei si è distanziata ora dal coro del banalismo letterario e si è fatta distintiva di una personalità autonoma, la messa in opera di un discorso poetico che è storia ed è scrittura rivelative di un’accensione che si fa sentire anche da molto lontano. A mio giudizio, il bianco delle vele è un luogo di approdo, in cui Casadei ha raggiunto la libertà espressiva con una scrittura composita e si può bene affermare, ora, ben consolidata da anni di esperienze e di prove. Un libro in cui si sono andati affinando il suo garbo estetico, la sua piena consapevolezza e le sue molteplici emozioni, tensioni, suggestioni.

Casadei oggi è un poeta maturo, sa cogliere le immagini e farli splendere di nuova luce, di intensa e calda umanità, di florilegi inconsueti, ricomponendo i limiti della scrittura con un andamento che ne determini la tessitura, ne ricompatti le frammentazioni e ne dia risultati pienamente raggiunti.

È molto probabile che questo testo sia una tappa importante del suo repescage poetico, una sorta di revival di toni e di stratificazioni che sanno innescare il cambiamento, sperimentare nuovi processi mentali, metafore e ispirazioni dai quali si evincono l’accelerazione e lo sviluppo verbali.

Questa nuova raccolta si presenta coniata da una forza evocativa inequivocabile, che possiede una forza ascensionale originante da una rivisitazione interiore della sua vicenda personale. Vi si intuisce dietro un lavoro di lima e di (ri)strutturazione encomiabili, un’appagante pacificazione col mondo esterno, come ansia emozionale, impegno e matrice di luoghi di fantasia che necessitano di essere ricompattati e mostrati alla polifonia del tutto, a cominciare dai registri linguistici per trovare la misura esatta dell’archetipo: ogni poeta lo ha, e ne consegue da esso il linguaggio più o meno limpido che possa contenere il dettato della fascinazione e della bellezza in arte: “In questi tempi di anime arrese/ cosa sta all’inizio, cosa in fondo giace/  si tace in omertosa intesa/ resta un buco nero, /la sorda malinconia che ci accompagna.” (Smarriti, pag 22)

Parte da qui, dunque il viaggio lirico d Franco Casadei, per proporsi ad una rivisitazione dei paesaggi consueti, in una nuova ottica di consapevolezza della parola salvifica, come in questi versi di eccezionale potenza: “dovremmo accettarci come i fiori,/ non disdegnare di morire.”(Anche il cielo è nudo, pag.20)

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30 ottobre 2012 2 30 /10 /ottobre /2012 16:25

 

 

Ninnj Di Stefano Busà: Il sogno e la sua infinitezza, (pref. Walter Mauro), Ed. Tracce, 2012

 

di Gianna Sallustio

 

L’ultima composizione (pag. 79) del testo è freccia che penetra sentimento e intelligenza del lettore: “La poesia.../involontaria fragilità e forza/ ha parole tremanti, dirompenti/ in grado di impregnare mente e anima, di mutare/ l’universo sensibile e le cose.”

Da tempo conosco l’autrice, sia attraverso la lettura delle sue opere, sia per averla conosciuta personalmente.

A lei è ispirata una mia composizione nella quale canti l’affinità che riusciamo a (ri)creare immediatamente, anche a distanza di anni trascorsi senza scriverci o telefonarci. sufficiente incontrarsi in un aeroporto e scatta l’abbraccio senza tempo.

Dunque entriamo nell’infinitezza del sogno percorrendo i versi della Busà come strade e sentieri, itinerari del cuore che dalla Gerusalemme dei vinti ci sublimano a cieli di catartico dolore. “...anche la vita con le sue distanze minime/ è un giro di valzer scordato.../la morte, una lingua muta/ che sbianca carne è sangue...”

Le metfore, i simbolismi che l’autrice crea, emersi dal suo immaginario lirico sono ad un tempo allegorie di memoria d’aria, di sorrisi di radici.

Ella tratteggia il paesaggio della ns. psiche, franta tra desideri e delusioni, innestandolo a paesaggi arborei, i quali intersecandosi ci propongono con dolce, prepotente, innocente meraviglia, ipotesi di volo, raggi di sole nelle brume dell’inverno.

Non è un testo facile da capirsi poiché la parola lirica è smaliziata, strutturata su analisi storico-razionale, laddove di storico non ci sono ordinarie stazioni di date, località e nomi, perché la Storia universale ed eterna di ogni essere umano, animale o vegetale è in funzione e significato della lirica.

Voglio dire che ogni composizione di quest’autrice non è solo onirica mediazione, è anche coraggio, visione oggettiva della fralezza, caratteristica sapiente e saliente di sentimenti e vicende, di ispirazioni e azioni.

Le ali dell’animo tese a candidi voli col tempo e le intemperie perdono ardimento; la resa più esplicita è la solitudine che come fiume sfocia nel leopardiano mare: “Ognuno sa, ognuno vede il florilegio/ farsi fosforo e porpora, svagato amore/ come di passeri al loro cielo agostano...” L’orizzonte della Poesia s’innesta a quello della Religiosità e diventa preghiera, coro di suoni armonici, elegia di memorie, oracoli di futuro.

E allora?...”Ci turba il paesaggio che riecheggia/ il diluvio delle mutate sembianza” nonché nostalgie e rimpianti, come relitti inabissabo la mischia dei perdenti (pag.41).

Così l’ultima sfida –vita o morte-  dei clandestin serrati in scafi di angosce e deliri che tentano incerti tragitti verso la speranza di libertà. Anch’essi uomini che nessuna legge ispirati da razzismi vari riuscirà a respingere totalmente.

Sono esodi biblici, rappresentano la nemesi del Sud di ogni nazione o continente nei confronti dei Nord, una sorta di maledizione. La ricchezza è per gli emigranti come la panna (o la m?..) che attira le mosche. Trattare queste tematiche è Storia; capacità di indignarsi attraverso gli strali dei versi è liricità eccelsa di Ninnj Di Stefano Busà.

I colori della Natura in questa poesia sono fragranti come all’aurora della Creazione: “verdi pascoli distesi al sole che allevano/ l’oro delle foglie, le sponde da cui presaghi/ ci aprimmo al nuovo giorno.” La scrittura di alto livello è epifania e presagio ottativo di un diverso modo di vivere e di convivere.

Il sogno-Poesia è ossigenante alternativa che i grandi poeti oppongono alle contraddizioni feroci del reale. Le illusioni, le gioie...”sciamano come fasci di fosforo nella penombra/ quando assaporano l’attesa che li nutre.” Il pascoliano fanciullino (l’innocenza attraverso la quale il poeta, anche a tarda età, osserva la vita sino a meravigliarsene...)nutre la poesia e ne fa resistenza al banale, inno al valore civico, etico, al coraggio: “dove le strade divergono c’è ancora/ quella speranza che non si arrende/ quel grido immenso di libertà/ che la fatica del divenire sorprende.” Nell’acuta prefazione del compianto Walter Mauro la poesia della Di Stefano Busà è riconosciuta come “densa e sottesa rinascita di proposte, drammaticamente e gioiosamente umane nel contesto del riscatto liberatorio...senza sovrastrutture...una lingua poetica semplice e naturale come sempre si addice alla poesia vera e autentica”.

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6 ottobre 2012 6 06 /10 /ottobre /2012 15:52

 

 

 

Recensione a IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA di Ninnj Di Stefano Busà

 

 

Leggendo la poetessa Ninnj Di Stefano Busà attraverso la sua ultima silloge poetica ”Il sogno e la sua infinitezza” sospetto immediatamente che il leitmotiv sia quello della solitudine, intesa come solitudine esistenziale, essenziale ed ineluttabile (“abitiamo l’addio….ognuno è muto nello slabbrato cerchio….tu solitudine  desolata, incolmabile orizzonte dei nostri desideri” e poi ancora” la fatica del viaggio ci rende corpi inospitali all’amore”)ma, come il Gabbiere di Alvaro Mutis  che “ sopporta la vita quando nessuno ascolta nessuno” anche in Ninnj Di Stefano c’è una forza centrifuga che le consente di fare l’elogio della solitudine stessa: (“mi fa rinascere creatura alare……”), per portare alla luce la valenza straordinaria della sua capacità di approdare all’equilibrio sereno della coscienza, dove vi è comunicazione universale con la natura e il mondo (“non sia epicedio di tenebra la malinconia del tramonto” o si leggano i versi “amiamo i silenzi rappresi nei corpi, nella pagina che lentamente accorda le creature”) .

La Poetessa, oltrepassando i confini dell’esperienza individuale, percorre i sentieri di ricerca della Luce, del superamento dell’Io, per avvicinarsi alla Verità, a ciò che ci fa essenziali: riconosco  nei suoi versi una sorta di dualismo, da un lato la donna della “desperanza” (rifacendomi a Mutis), che in alcuni momenti cerca di cogliere l’attimo (“chiedevo cattedrali, tatuaggi d’oro alle mie sere di gemme vive” ), ma se ne dissocia , epurata dai punti d’appoggio del contingente, in un ideale escatologico (“in Te solo le ferite del mattino sembrano incorruttibile luce che si propaga”), dall’altro la donna della trasformazione e della  RINASCITA, la donna dell’ordine, della maturazione della fede, che, mutuando un termine al mondo della fisica, non esiterei a definire donna dell’entalpia, nel senso greco di ”portare calore dentro” e Ninnj DiStefano Busà ci sa trasmettere il fuoco della sua passione(regalami lo strappo dell’abbraccio) e nel contempo ci guarda con serenità dall’ appagamento della sua illuminazione (“la poesia ha parole dirompenti…in grado di mutare l’universo sensibile”).

Questa è Ninnj Di Stefano, che emerge con voce ancora più limpida e potente rappresentando un punto di riferimento nel panorama della letteratura contemporanea  e con le sue parole di indubbia  forza morale sottolinea l’incertezza delle apparenze per dar corpo alla suggestione e all’abbandono di schemi terreni come siamo abituati a fare; Ninnj Di Stefano cerca di superare  il dolore del vivere in  complessa figurazione esistenziale, riportandoci alla mente le litografie di Odilon Redon “Dans le reve”, in cui il tempo-spazio si carica di valenze psichiche e cerca di esorcizzare l’angoscia che ne deriva: “La vanità della parola che non cede alla mestizia della carne” ma “sulla cangiante illusione riposa l’acqua dolce della tua fronte”.

Ebbene, cos’è dunque la trasformazione? È una crescita, certo, ma è anche una  maschera?...  strumento ideale per poter giocare con l’Io, per scardinare i legami con la soggettività e per assumere una identità diversa, né migliore né peggiore…credo che Ninnj Di Stefano non abbia bisogno di maschere, può permettersi di trasferirsi in un altro mondo, parallelo e ricchissimo di musicalità e tensione verso l’assoluto, dove diventa possibile comunicare in liberi orizzonti, senza timore di venir scoperti, senza una maschera che faccia da  cassa di risonanza per amplificare la propria voce…”la nostra gioia è arsura oppure che la Gerusalemme dei vinti ci indichi il sacrario del cielo?”

E il tempo, come ben dice Walter Mauro nella sua prefazione, è tema prediletto e imprescindibile della sua  lirica ,”tempo d’inattuabile, di impenetrabile” sia inteso come nostalgia(“racchiude in se ali di gioia...la vena rifiorente delle primavere d’acqua”), sia come inesorabile decadenza (“una tregua da cui escono illesi la morte e la vanità dei trapassati”), ma Ninnj Di Stefano si libera da queste paure ancestrali, dai rigidi schemi comportamentali che lo ingabbiano e fa sì che la sua raffinata  arte poetica diventi un autentico atto sacro, dove la ricchezza dell’interiorità unita ad un lessico raffinato le consente di manifestare appieno il suo estro creativo  prepotente e la realizzazione della sua dimensione di purezza, in un percorso salvifico del vero Se’…parafrasando Antonio Porchia, sento che potrei attribuire a Ninnj Di Stefano Busà la celebre frase “prima di percorrere il mio cammino, ero il mio cammino”: cosi scrive la Di Stefano: “Siamo ombre alla luce della resurrezione” e nell’avvicinarmi all’altezza delle sue parole ne sono rimasta incantata e sgomenta.

Di un virtuosismo estremo, ma puntuale e fedele alle varie sensazioni: (“la vanità della parola che non cede alla mestizia della carne”), in una continua seduzione per il lettore (a tratti ci restituisce l’innocenza, l’amore… (“ma non abbiamo ali che ci spingano in mare aperto”) ed è proprio la sua capacità di risintetizzare il disagio esistenziale e la solitudine coniugandoli con una malinconia non priva di speranza (“cancelliamo i giorni dal calendario, ci offriamo alla dimenticanza”), che la rende una grande Autrice, dalla cui penna ogni parola che nasce è autentica arte.

 

Warmbad Villach, 6 ottobre 2012                                               Gabriella Pison

 

 

 

 

 

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1 settembre 2012 6 01 /09 /settembre /2012 17:43

I Poeti di Vico Acitillo, di Alessandro Fo, Poetry Wave, Napoli 2009

 

di Ninnj Di Stefano Busà

 

D’incomparabile bellezza e stile queste poesie di Alessandro Fo. Hanno insieme la tenerezza e l’asprezza di una carne dilacerata che si va ricomponendo da sé, si va richiudendo dalla sua stessa cicatrice, dalla pacata dolenzìa di un reperto appartenuto a non so chi o a che cosa.

Enigmatica, profonda, abissale, ma anche magmatica, estrema, avventurosa, fluente, come di fiume che scorre tra due argini che non si toccano mai, ma che nell’equidistanza, nel parallelismo trovano la forza di coniugarsi e trasfondersi.

Così mi appare la poetica di Fo, un raro connubio di “fioriture” mutevoli e “mutanti”, dentro un linguismo che incide notevolmente sulle sfumature, insiste sui minimi particolari, sulle orchestrazioni, sui ritmi sempre intensi, accompagnati da costruenti dettami che mostrano la realtà nuda e remota, ma dentro una liturgia sacrale che li trasfonde e li immortala

Fo è uno di quei poeti che utilizza l’apparente quotidianità dei luoghi, dei tempi, delle cose

pur minime, per dar loro un’aura d’eternità, ridare loro smalto e potenza.

Lo fa con tale maestrìa da imporre loro (alle cose) una veste regale, una forza e vivacità che vanno ad imprimere ai versi un corrispettivo armonico, uno stile suo personale abilmente messo a “punto” da un coordinamento di immagini che sono l’esclusione assoluta di ogni infingimento di scrittura.

Fo è molto abile ad utilizzare strumenti di (re)strutturazione mnemonica che sanno cogliere l’intera gamma del reale e la prospettica visione delle cose.

Pochi poeti come lui hanno la capacità di saper impostare e tessere un tale canovaccio tra l’ironico e la parodia, tra l’affabulazione e il sarcasmo, tra il bene e il male, tra la luce e l’ombra, tra la verità e il nulla: una poesia polisemica che non vive di luce riflessa, ma è fonte luminosa, dà splendore, prospettiva, in forma marcatamente quotidiana; sfiora la gamma completa degli avvenimenti umani, estraendo di ognuno la qualità dell’anima (anima mundi), perché ogni sentimento, ogni verso esprima le caratteristiche peculiari di un messaggio universale, intriso, sì, di tristezza e affanno, ma anche solare in cui vige e si trasforma il vissuto di ognuno, attraverso una perizia (la sua) che incanta, astuta quanto basta, illimpidita da un virtuosismo formale che fa la differenza, fatto di giochi e allitterazioni(?), di metafore e allegorie profonde, quasi ai limiti di un più gozzaniano momento lirico, che interloquisce dal profondo col suo “io” intimo e meditativo.

In definitiva, trattasi di un poeta intellettualmente colto, preparato, con un (so)strato culturale molto elevato che usa la parola come lama quando affonda nel miele, la tratta con la provvisorietà imposta dai tempi e dai luoghi che inevitabilmente la vita impone, ma con una nota distintiva di eleganza, di super raffinata padronanza del linguaggio poetico, come mi pare oggi ve ne siano pochi.

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29 agosto 2012 3 29 /08 /agosto /2012 17:25

Valerio Magrelli, Natività, Ed. L’obliguo, Brescia

 

di Ninnj Di Stefano Busà

 

 

Quella di Magrelli è una poesia particolarissima, risente di una vena contemporanea che rifiuta l’elegia, e riformula il concetto di una poetica quotidiana, eseguita sull’onda dell’andamento domestico, del tempo cronologico, della temporalità. Una ricognizione a 360° del vissuto ordinario, ma della quale, nel suo profondo si evince la riflessione sulla vita, sull’esistente, si tocca l’amaro di un “sistema” che è ininfluente nei confronti del bene comune, della felicità, del benessere. Travolti come siamo da una valanga di problemi di ordine sociale, personale, culturale, politico, congiunturale giornaliero, risentiamo dell’anestesia dell’anima e da qui, origina l’infelicità dell’individuo, le sue assenze o defezioni, le penurie, le contraddizioni di un vivere precario fatto a immagine di un “mordi e fuggi” di una scontata e deprecabile vita esteriore: spersonalizzata, umiliata, resa sterile dall’automatismo epocale, dal depauperamento morale, intellettuale della società, cosiddetta “consumistica”.

Come nella poesia: “Natale, credo scada il bollino blu” e poi a seguire: “E per conoscenza”, “Questo brusio, il ronzare di congegni!, rendono l’idea  immediatamente di questo conflitto tra l’uomo e la sua estraneità al mondo, tra l’uomo e la sua immagine amebica, anestesizzata, paranoica, che vive in un limbo di paradossali ingranaggi fatti a immagine di asfissìa, di veleni, avvolto “in un estremo brivido/ molecolare d’onde” /.../ questo brusio, il ronzare di congegni/ per l’aereazione, clic di infinite valvole termostatiche, fase o bifase, questi/ panneggi di microvibrazioni/ che avvolgono la sera in un estremo brivido.../” così descrive l’ambiente circostante Magrelli e vi è tutta la forza d’urto, l’urlo soffocato di non riconoscersi “oggetto” in balìa di un meccanismo, di un automatismo sincopato che depreda l’interiorità, la sensazione di potersi autonominare “soggetto” del mondo, senza lo stritolamento, il deterioramento dell’essere. L’attrito rimane forte tra le incombenze da pagare: canone-TV, Irpef, bollino blu del motorino, questo destreggiarsi in un’epoca che non ammette distrazioni, pause, interruzioni: tra bollette, password, codici utente, Pin, (che il poeta definisce “le nostre dolcissime metastasi” attraversate dall’anagrafe telematica che viviseziona ogni gesto, ogni azione umana.

Ma ecco, nel fondo spuntare la nota amara: il riflesso del pensiero che avverte di essere umani in un ambiente ostile, e traduciamo dal poeta: “questo cavo artificio palpitante che è il nostro mondo”. Così non resta che dargliene atto, non restano che parole nel vento, questo declino automatico della coscienza è il risultato della ns. irrequietezza: “di sentire che qualcosa è andato perso/ e insieme che il dolore mi è rimasto/ mentre mi prende acuta nostalgia/ per una forma di vita estinta: la mia.” Una formidabile verità, una definizione di vita assente, di menomazione, di amputazione che avvertiamo tutti, ma soprattutto il poeta, le cui parole avvertono senza ombra di dubbio la vita parallela che ci ostruisce la virtù dell’intelletto, dell’anima e del sogno.

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18 agosto 2012 6 18 /08 /agosto /2012 11:44

 

di Ninnj Di Stefano Busà

 

Un sentimento che abbraccia la vasta gamma delle sensazioni, delle suggestioni, delle emozioni a livello conscio e inconscio dell’autore.

Un vero diario in cui il poeta Coco trascrive attraverso la scrittura poetica il suo limpido e chiaro canto d’amore fraterno alla figura adorata e adorante di un finissimo e lucido intelletto, il cui passaggio dalla vita alla morte è stato fulminante e repentino: descrive il calvario degli ultimi giorni, l’sssistenza continua al suo capezzale, quasi a scacciare la morte che lo ghermiva tra le sue spire, l’agonia e infine la resa definitiva, inamovibile.

Si evince una sorta di itinerario in mortis barriera che apre e conclude l’inattesa drammaticità dell’evento che si compie, e ne stravolge i sentimenti, lascia attoniti e perplessi.

Un carico d’amore e di adorazione legava l’autore a quest’uomo (suo fratello), un misto di venerazione e timore, un’effusione ora placata solo dalla fragilità con cui si è vicini alla morte: Emilio che lo assiste, lo copre, allevia la sofferenza come farebbe una mano materna...

l’autore risulta è schiantato da questa esperienza fatale, che vede l’adorato fratello concludere la sua vita terrena a causa di una banalissima caduta accidentale che lo porta, da subito, ad avere le conseguenze tragiche di una agonia pre-morte. Lo assiste nella degenza di una stanza che è l’inespugnabile barriera tra lui e la morte. Michele attraverserà lo Stige con le attenzioni, le cure amorevoli del suo amato fratello, che per scongiurare il suo trapasso, prega tutti i Santi che incontra in quel luogo di tristezza. Quando sente affievolirsi la capacità di recuperare alla vita il fratello, smette di pregare, gli fa scudo col suo corpo nel tentativo di esorcizzare la Dama Bianca che sfronda i suoi prediletti. Una grande descrizione che annota i punti salienti della storia: una storia che commuove; una scrittura intensa, in cui vengono affrontate le emozioni di un’immersione nelle tenebre,  compromessa dal destino che ha voluto separare anzitempo un legame sì forte, come quello di sangue: “Lasciatemi con loro, coi miei morti...”quasi urla, attraverso il pudore che lo attanaglia. Coco avverte la sofferenza della resa, la proiezione del rimpianto che si fa ostile e accompagna la poesia nei punti-chiave di una interlocuzione tenace, fatta di potenti, eppure teneri ricordi.

La forza emotivo-sentimentale è palpabile, si avverte la trasparenza straordinaria di un verso che tutto reclama e accompagna: il dono della notte è un epicedio di note alte, che sanno accompagnare il prodigioso amarcord della vita, malgrado tutto, e nonostante gli affondi temibili della memoria che fa dire all’autore: “Torneremo a incontraci in quel paese/ dove il sole risplende tutto il giorno/.../ lì resteremo eternamente giovani.” Libro straordinario, endecasillabi perfetti che registrano e respirano l’amarezza della sconfitta, ma evocano un’ascesi lirica che resta quasi a immortalare il respiro, la gioia di esser(si) appartenuti in un legame di sangue e d’intenti che li ha accomunati, in un sigillo d’albe e notturne foschie. Come da ragazzi hanno retto alle lusinghe e alle astuzie della vita, opponendovi i loro adolescenziali sogni... Cosicché, ora in accenti di rara preziosità lirica e di perfezione linguistica, il poeta ne riscatti l’assenza: “so che più non sarà com’era prima”, e senza neppure un filo di retorica, il canto ne esce trasognato e struggente. Trattasi di una poesia alta, che sublima il dono e il valore umano dello scomparso.   

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14 agosto 2012 2 14 /08 /agosto /2012 17:46

 

Bertgang (Fantasia onirica), di Luigi Fontanella, Moretti 6 Vitali, Bergamo, 2012

 

Di Ninnj Di Stefano Busà

 

Con “Bertgang” (Fantasia onirica), Luigi Fontanella ci presenta la sua ultima fatica lirica, che, a dire il vero, sembra andare oltre le forze e il fascino visionario di un deja vu, verso un mito irrisolto, oltre la sfumata, eppure, viva e presente allegoria di una figura prepotentemente impressa nella sua mente di sognatore e di poeta, per quella fluida metamorfosi erotica che lo contraddistingue.

La -donna- s’inquadra in un reticolo di fantasia, di perenne smarrimento di fascino e di teorico dissolvimento che entra nelle spire di un immaginario astrattismo, ma al contempo imprime un melodioso, quasi magico richiamo all’Eden  primitivo della specie umana: Adamo ed Eva cacciati attraverso l’ignobile azione della disobbedienza, sono protagonisti della loro vicenda personale, ma anche di quella dell’intera umanità che rivelerà ed evocherà i punti più salienti dell’inconscio freudiano. Compagni di sventura, in un delirio di ebbrezza, che va a perdersi nei sensi e nella forza dell’Eros, essi vivranno l’esilio del sensi e della carne che ideologicamente e psichicamente deformano la figura dellEros delirante e contraddittorio del mito moderno. La parabola è rivisitata da Fontanella con grande e delicata fantasia onirico-sentimentale: vi sono tutti gli elementi per catalogarla entro un labirintismo di sogni, di desideri, di aspirazioni che ognun si porta dentro, seppure in un pensiero teorico di astrattismo votato a sentimenti seducenti e impalpabili. La psiche viene (ri)visitata alla Freud: una compagine di fantasie sul punto di esplodere al primo alito di vento...e Fontanella nel suo poemetto mostra chiaramente che Zoe Bertgang gli ricorda il modello, quantomeno il <fantasma> di una realtà che prende forma e purezza poetiche dalla rivisitazione di metamorfosi oniriche: il sogno si traduce in un’idea di danza e di camminamento, identificabili in Gradiva,  come evocazione di una figura che è scolpita nell’anima tal quale il simbolismo lo mostra: epifania e vertigine di un mondo che rilancia la bellezza dell’Eros: un amore o una narrazione di felicità immaginifica mai raggiunta, che il desiderio coglie nel suo interessante <transfert> : “Vano sogno dunque il mio e solo vera/ la mia follia?” un sogno, un criptico smarrimento, un’apoteosi del ricordo che dell’amarcord restituisce interamente tutta la gamma della sensazioni virtuali o non, della passione salvifica dell’autore o del suo allusivo riferimento, quale archetipo trascolorante o in via di estinzione, sciolto da ogni qualsivoglia trama, purtuttavia, doloroso e pungente, avulso dalla felicità stringente e arcana di un simbolismo, più vicino all’atmosfera quasi idilliaco-metafisica del poemetto, che vuole rappresentare le zone oscure di una vertigine velleitaria e visionaria, atta a sperimentare i contrappunti, le orchestrazioni, le narrazioni visionarie e le  atmosfere surreali, magiche e composite di questa poesia ricca di note dolcissime, che sanno ben bilanciare un linguaggio, aulico, denso di note misteriche e di suspence, di aree magiche, surreali, carico di desiderio insopprimibile, atto ad esplorare le vie mnemoniche per portare alla luce in un gioco di dissepolti e deliranti riferimenti la carica erotica del protagonista, il quale vi costruisce il disegno di una fanciulla rassomigliante, probabilmente amata dal poeta: una "reverie" ripresa nel movimento fluido di danza e nella grazia che le imprime il suo camminamento. L’emblema tragico del mito, la fuggevole consapevolezza di una magìa, di un’elegia che non tornano, (sembra non sia stato risolto del tutto entro l’ambito psicologico dell’autore il nodo della trascendenza psicoanalitica), di cui ancora ne riconosce i segni, ne porta tracce indelebili, ne intuisce presenze oniriche, fantasie "erotiche" attraverso l’evocazione di Gradiva/Zoe.

Norbert o Fontanella amano lo stesso modello femminile, ne sono attratti  fino a trasfigurare l’Eros. Il suo richiamo, attraverso il fantasma icastico e seducente di un passo rapido e leggiadro che sa fluttuare come aria dentro la psiche, ne analizza ne indaga i contorni, parla tutte le lingue del cuore, ed è tanto intenso e tenace da ispirare l’alta poesia di questo poeta.

 

 

 

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11 luglio 2012 3 11 /07 /luglio /2012 10:41

 

“Salva col nome” di Antonella Anedda, Almanacco Mondadori, 2012

 

di Ninnj Di Stefano Busà

 

E’ un’arte rara quella di Antonella Anedda, di scomporre parole, denunciare fatti quotidiani, respirare gli ampi spazi della mente con l’euforia del cuore.

Gli oggetti da lei descritti sono definitivi, come le sue rispondenze verbali, come i segni felicemente risolti di una fattispecie mentale che non ha altri frammenti da esporre, che quelli nominativi e da lei nominati a sostegno delle sue elegiache definizioni d’intenti.

I suoi affondi sono lapidari, inusuali: “contro il tempo trovammo l’arte dello spazio/ la precisione che non permette alla mente di affondare”.

La precarietà delle cose è appena sfiorata, come un assillo che ferisce, sete d’aria che si espone all’ascolto dei suoni, dei ritmi, degli elementi che in questa poetica quasi danzano, nel comporre la disciplina del dire, e mutuano la scomposizione della gioia in confini di essenze pure, senza l’inconsistenza del vuoto, che pure c’é e si avverte, in sottofondo con l’amarezza di un confronto di stelle.

Quello dell’autrice è un vuoto che si nobilita dalla tendenza a tessere e cucire tutti i dettagli, a sommare tutte le offese, a suturare ferite di assenze tra le incongruenze del mondo.

E’ una poetica quella di Anedda che va decifrando e scavando dentro la matrice scrittoria il linguismo colto e polifonico di cui gode il suo dettato.

Salva col nome” dà l’idea di un senso di pudore panico, entro la ricerca, seppure balbettante, pudica di una spoliazione verbale che la contraddistingue da altri autori.

Vi sono molti riferimenti alla vita quotidiana, in quanto nascita e morte del tratto terreno, ma anche e,soprattutto, come ricerca o propensione a stabilire un filo conduttore con la coscienza dell’essere di shakesperiana memoria: to be or not to be?

Sullo sfondo la tragicità del malessere umano: l’incertezza, la vacuità, il senso di inadeguatezza, quel bisogno di voler essere ora, qui, in questo istante, tutto ciò che è umanamente possibile: la vita dentro la morte, segno fuori dal tempo, spazio non adibito a recuperare le cose, tutte le cose e salvarle dall’ineluttabile momento della fine.

E’ un verso che scolpisce per arguzia e nitore di fenomeni pertinenti all’anima, ma soprattutto, al pensiero che li determina e li trasferisce all’immortalità. Ce lo confessa lei stesa in pochi versi che la descrivono: “scuotere dalla tovaglia la paura insieme alle briciole del pane/” fare un orlo al dolore, posarlo sul mucchio dei panni da stirare/.../” parole apparentemente semplici, eppure con una carica dirompente di fatalità e di lutto, di vitalità, ma anche di dolore.

 

                                                      Ninnj Di Stefano Busà

 

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