di Ninnj Di Stefano Busà
Una poesia di stampo religioso si direbbe, che il tono altamente lirico mette in evidenza, s’intravede sin dal primo incipit: “ho sete di Dio/.../ se io non sapessi, se non conoscessi/ le albe di luce/ e i tramonti infuocati/ della sua trascendenza/ questa brama che m’arde/ non sarebbe incessante.”
Il poeta dunque avverte un richiamo dall’alto che coincide con una sete di Assoluto inestinguibile.
La necessità di elevazione dalle rovine e dalle macerie, dalle frane umane gli fa dire con un certo riferimento logico e sincero che la sua “ribellione ha bisogno di cielo”.
Ma poi perché questo bisogno estremo di purifcazione? di motivare religiosamente e misticamente il richiamo di Dio? evocarlo dalle tenebre fonde che attanagliano l’uomo moderno? Se ne avverte estremo bisogno, ci trafigge la sua assenza, ci condiziona la perenne latitanza dalla sua ineguagliabile fonte di verità e di bene. Ecco, in sintesi, il motivo di tale disperante disattenzione si proietta come una catabasi per le nostre misere forze e ci fa desiderare evocarne le sue estatiche forme, le sue prospettiche verità...
Il poeta ambisce ad una prospettiva di luce che condona e perdona ogni atto contronatura, ogni affronto volto a Dio è come perpetuarne le nefandezze, le brutture dell’umana stirpe. Perciò Angelucci sogna una vela in mezzo alla tempesta, uno sgrondo di acqua pura che deterga il peccato originale che ci segna dalla nascita, ma anche ci assolva da tutte le abominevoli scelleratezze dell’uomo dentro una miserevole e inaudita violenza perpetrata alla natura e alla vita.
Si vive in una landa deserta, nella solitudine dei vinti, nella quale ci appare “estrema” la terra in cui viviamo, esplicitamente si avverte il senso di esilio.
Non vi appaiono le condizioni del superamento e neppure di una felicità minima, seppure appannata.
Dentro un pensiero che riprende una visione confessionale vi è perciò il segno tenace che fa riferimento ad un <altrove>, ad un alter ego ricercato e amato nel suo lungo itinere dolorosamente umano. Questa raccolta lirica di Angelucci appare un diario intimo e vocativo di una visione di Assoluto mistero, in cui si trasfigura e si delinea un’idea di infinito riscatto, una preghiera che appare pregna di quella luce divina che andiamo evocando: una forma di vita entro la vita, in ogni minimo anfratto dell’anima, in ogni angolo nascosto del nostro sentire e agire: “Dentro di me tu sei”. Si ammette da parte dell’autore palesemente una sorta di palingenesi/ascensionale di un’Entità o Ente che corrisponda al Divino dentro le fibre dell’essere, pur se l’anima ambisce a precisi richiami, a colloqui ravvicinati con la divinità.
La parola di Angelucci non è mai evangelica, ma laica. Dentro un itinerario illuminante che coinvolge i momenti alti di una ricerca interiore, vi è l’uomo con le sue debolezze, le sue fragilità, le contraddizioni, che lo coinvolgono in uno stato di indigenza spirituale segnato dall’angoscia del camminamento al buio, che tuttavia riesce infine a traguardare il pensiero della fede, ponendosi in sintonia con l’universo. Gli accenti sono drammatici perché si percepisce dal linguismo moderno e asciutto l’intenzione di esibire un brandello di “grazia” da allineare alla percezione-intuizione di un cammino terreno che pur dall’emarginazione trae la riflessione per un dolore meno cupo. E’ qui che il pensiero di Dio rinfocola la speranza, fa meno dura la lotta quotidiana, la perdita di ogni bene.
Pensiero “poetante” che si confronta con l’itinerarium mentis e ne rimane folgorato: Dio c’è, Dio è nella verticalità (da qui il titolo) più sacra e umana del desiderio umano, ogni uomo arde di sete al suo cospetto, perchè è anima espiante, intrappolata nella tenebra, impossibilitata alla visione dell’Oltre, alla quale può giungere al compimento del percorso terreno, dopo indicibili lotte e sofferenze: “Perché c’è un’altra terra/ per le mie radici/ e un altro cielo/ per i miei germogli.”