Overblog
Edit post Segui questo blog Administration + Create my blog
16 luglio 2009 4 16 /07 /luglio /2009 14:24

di (Ninnj Di Stefano Busà)

Molto si è detto e molto ancora si dirà sulle cause che determinarono la costante e ineludibile crisi e la depressione a livello spirituale del Pavese.
La solitudine fu la chiave di volta del suo percorso umano, la portò in sè, nella profondità della sua psiche, quasi radicata nel suo essere.
Fu una sofferenza cupa, senza scampo, senza visione d'oltre: solo lui e la sua sofferenza estraneante, martellante , senza gradazioni intermedie di colori, senza vigore né Luce: una tempesta come frutto di una incaspacità congenita del vivere, strazio e perenne abbandono furono sempre i compagni di vita di una personalità chiusa in sé, tesa fra il desiderio di adire ai due momenti più importanti della sua esistenzialità di uomo e di credente e la sua incapacità di porsi a livello di coscienza atta a derimerla.
Davide Lajolo nella sua biografia a Cesare Pavese (Il vizio assurdo, ed. Il Saggiatore,1967) parla a lungo dei temi che lo coinvolsero in un periodo di massimo smarrimento per lo scrittore delle Langhe, che ritornava nella sua città sentendosi sulle spalle il peso dell'ostilità, del caos, della paura causati dal conflitto ancora in atto.
Di Pavese non si conosce il motivo della morte che apparentemente corrisponde al suo carattere, ma che vi combacia quasi alla perfezione. Egli torna, dunque, interiormente provato dal postbellico e dalle conflittualità, dalle contraddizioni, dai disagi che in sè portava questo momento di storia patria, che aggravò la sua posizione di uomo dal carattere debole.
Aveva lasciato alle spalle Roma nella quale aveva diretto la sede locale della Einaudi e il ritorno a Torino era stato per lui un grande impatto con una realtà devastante e cupa: ovunque case bombardate, la città messa a ferro e fuoco da un conflitto che aveva disarmato in lui, già debole e perennemente instabile, oscillante fra esaltazione e cupa disperazione, ogni desiderio di lotta, ogni superamento delle facoltà di agire o reagire.
Si sentì, improvvisamente solo e abbandonato, attorno alla sua vita  -il nulla- fuori e dentro l'anima e nel corpo il senso di fallimento, il decentramento solitario e perverso dalla sua vita, la tragedia del vivere stentatamente, senza punti di riferimento certi, senza obiettivi e sogni. Il Monferrato ancora rivendicava il sangue dei suoi amici in lotta per difendere il territorio.
Lui che di coraggio non ne possedeva, si sentì svuotato e avvilito, si ritenne escluso da ogni valida ragione che potesse rivalutare la sua inerzia, il suo malessere interiore.
Ma come disse Don Abbondio: Nei Promessi sposi,  quando i bravi di Don Rodrigo lo circondano per imporgli di non sposare Renzo e Lucia: "il coraggio bisogna averlo dentro, se uno non ce l'ha non può farselo".
Allora meglio per Pavese chiudersi nel mito, meglio entrare nell'irrazionale di un sogno che virtualmente prenda il posto di tutti gli altri desideri o aspirazioni. Pavese entrò un un isolamento che piano piano lo portò a farsi una trincea attorno, dove l'angoscia della solitudine e il tormento dell'incomunicabilità la fanno da padroni, tagliandolo fuori da ogni spiraglio di salvezza.
Comincia la sua discesa negli inferi, la sua premessa di luce interiore, di ricerca di Dio che avrebbe potuto farlo emergere dalla sua condizione di emarginazione, di essere solitario vagolante sulla terra.
Nel '43 nel collegio dei Padri Somaschi di Trevisio nel Casal Monferrato conobbe il giovane padre Giovanni Baravalle e per poco tempo inseguì la fede, attraverso il suggello d'amore e di speranza che il sacerdote gli fa balenare nell'anima.
La sua posizione è di pieno scetticismo e agnosticismo, ma tenta, malgrado tutto, la risalita attraverso i dialoghi privati, le testimonianze, l'intima grazia e la dolcezza del suo apostolato di fede, di compiere quei passi che lo avvicinassero a Dio. Per qualche tempo brevissimo, intravede attraverso nebbie fitte la luce di una verità che  il padre Baravalle gli porge.
Sono sue le preghiere insieme agli altri discepoli e allievi che il padre spirituale raccoglie, indirizza alla preghiera, cura apostolicamente e umanamente avviandoli sulla strada della vita con esortazioni, consigli, suggerimenti, insegnamenti.
Pavese s'inserisce in quel gruppo di ragazzi, si sforza di dare una svolta alla sua vita, che non fosse di sola cupa disperazione, osserva e dialoga col reverendo ogni giorno. contraddice le sue posizioni, cerca verità rivelate, scampo nel presupposto che la Chiesa e il Cristianesimo gli avevano proposto fino a quel momento.
Una tregua, forse, dalla tortura dei giorni bui, prega perché in lui scenda la grazia divina, perché la fede lo prenda con sè e lo induca a un intenso lavoro di ricostruzione, di istruzione evangelica, d'indottrinamento religioso e morale che lo congiungessero a Dio.
Il miracolo non avviene. In Pavese è troppo complessa e articolata la gabbia che lo tiene stretto, un groviglio delirante che interagisce nella sua mente, senza dogmatismo di fede, una coscienza laica, assolutamente priva di barlumi di Trascendenza.
La grande esemplarità del sacerdote nulla può, senza l'ardimento di una Verità confessionale che lo facesse emergere dalle tenebre del suo schema morale e religioso. Cesare Pavese si limitò ad elaborare il concetto di Dio, ad immaginarlo chiuso e forse ostile nei suoi mancamenti e assenze, chiede a padre Baravalle di accompagnarlo da Lui, si confessa, ricevendo la comunione il 29 gennaio del '44.
Tutto inutile: la grazia non discende nei cuori che rifiutano veramente Dio. Pavese aveva fino a quel momento visto la religione come un orpello senza grandi sussulti, più come fondamento di norme etiche che visione di un Tutto che sublimi, elevandola, la coscienza del singolo.
Non è folgorato sulla strafa di Damasco, l'anelito religioso resta in lui lettera morta e non ottiene la svolta desiderata, il cambiamento spirituale tanto atteso. Non lo attraversò per nulla il brivido di umana compassione, la sublimante attesa del congiungimento, l'estremo rinverdire di fogliame dentro rami secchi; la brace accesa nelle ore liete è forse il residuale, ultimo miele, non il prodigio carico di promesse catartiche, che rimasero latenti e amorfi nel suo spirito sconfitto.
L'amara constatazione esasperò ulteriormente il suo codice etico e intellettuale di uomo solo (sperduto nella sua immensa solitudine), senza conforto di fede, perso in una visione cosmica e tragica dell'umanità che vagola in cerca di sparute verità.
I disperati appelli della sua anima non sono stati ascoltati da Dio ed egli ripiomba nel più cupo e beffardo soliloquio con se stesso, si chiude a riccio nella più indifesa e straziante  -condicio sine qua non -   dei suoi interrogativi, dei suoi dubbi; ha tessuto intorno a sè una rete a maglie strette e vi si avviluppa, vi s'impiglia nell'inganno dei suoi vaneggiamenti, delle sue perdite di uomo e di credente.
Per Pavese vivere è soffrire: il dolore è antico e sempre uguale, fomenta la sua persona e non lo fa avanzare di un passo verso la salvezza. Il 30 gennaio annota sul suo diario: "il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l'aria."
Chi, se non uno che soffre come lui avrebbe potuto descrivere meglio l'assenza della gioia, il cupio dissolvi della sua vicenda personale e intellettuale? Si sente indifeso dinanzi al dolore, e la sua descrizione si fa pressante, quasi patologica: "chi soffre è sempre in stato d'attesa  - attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto/.../. Qualche volta viene il sospetto che la morte... eccolo lì il punto cruciale, il dolore senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del tempo in un corpo che non morirà più." .
Ed eccoci al dunque. ci prova a morire, stabilisce con l'intensità dello strazio la sua ragionevole dose di fiducia, si lascia andare, si abbandona a quell'addio che lo ripagherà delle troppe sofferenze inflitte al suo corpo. Tradisce la vita in quel lontano agosto torinese torrido e insieme glaciale per la sua vita che si spegne.
Ma come avevo accennato in precedenza non è solo l'assenza di Dio che lo assilla e corrode dentro. Il suo naturale slancio vitale è spento, ma anche la mancanza di un affetto ha il suo peso. Vi è in lui questo contrasto esasperato fra la solitudine che pure apprezza, perché fa parte del patrimonio intellettuale dell'uomo di pensiero, e la sua costante latitanza dalle gioie intime e sincere di una famiglia, di un amore. Durante gli stadi coscienziali del suo bilancio d'uomo compare la figura femminile, e vi si staglia, si converte in quel suo sogno che si ripete all'infinito, e lo porta a considerare la donna come punto di riferimento, certezza, esigenza vitale della sua esistenza randagia, quasi a sconfessare trappole, pene, a catturare esili progetti non ancora arresi al silenzio. Quella che lui perennemente cercava, così per assemblarla ad una casa, a un rifugio d'amore, ad un'ansia di pacificazione e di dominio dei sensi, sembra volergli sfuggire in ogni circostanza, anche con l'americana Constance, con la quale aveva sperato furiosamente di trovare la felicità.
La donna-angelo del focolare, la donna amica/amante/moglie/compagna alla quale avrebbe dovuto accordarsi la sua immensa sete d'amore, il suo ineludibile vuoto è forse la pena di andare oltre se stesso, nel tentativo vano di superare la cortina oscura del silenzio, l'estremo moto intorno alle praterie di favole dipinte coi colori della vacuità, e ancora la linfa vitale non lo soccorre, teme l'impennata dell'ala, il suo lucido presentimento, il suo labile abbandonarsi a scommesse sul filo del rasoio : "Solamente girarle le piazze e le strade/ sono vuote. Bisogna fermare una donna/ e parlarle e deciderla a vivere insieme./ Altrimenti uno parla da solo/.../la casa sarebbe/ ove c'è quella donna e varrebbe la pena." (da: Lavorare stanca).
Pavese gioca fino in fondo la sua folle partita con la morte. Il suo è un bisogno estremo di amore, un bisogno viscerale, lo avverte come un feroce fluirgli nel sangue dell'intero percorso esistenziale. 
Si riesce allora, a sintetizzare le due esigenze come complementari e irrisolte, pur nell'immensità di un desiderio che andava oltre i canoni logici di una realtà che non gli puntellò la vita, la eluse e deluse, intimandogli la resa dei conti, il bilancio passivo nella sua contraddizione drammatica.
Resta il mistero che tuttora appare irrisolto e che intuisce risvolti personali e non, stringendolo per sempre  nella  sua indole segreta  e tragica. La stabilità emotiva divenne esponenziale, il suo lutto privatissimo con la morte non venne mai elaborato per mancanza di mezzi interiori, e l'esito finale della tragedia fu il suicidio. Si realizzò  il tutto tempo e il tutto eternità -  come lui stesso aveva preannunciato, e finalmente il suo:  -Oh tu abbi pietà - ebbe senso. Un sogno il suo, ancorato alla linfa che non impegna lo spingersi oltre il muro, che tralascia impegni di radici e di scommesse, lo fa pedina di un gioco tragico, oscurato e vano, la cui sosta nei territori impervi e banali, ha galoppato l'anima azzurra delle cime, fiutando solo qua e là qualche brandello d'ipotesi vestita da favola, dentro la sua pena irredenta.

Condividi post
Repost0

commenti