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15 febbraio 2011 2 15 /02 /febbraio /2011 08:56

di Ninnj Di Stefano Busà

 

Quest'ultima fatica di Giorgio Luzzi lascia il lettore in un stato di grande riflessione. Non si tratta della solita poesia, è qualcosa di più, è un messagio di rinnovamento dei cardini classici di un far poesia per esclusioni tematiche, è un dialogo con se stesso e l'altrui, è un intraprendente viaggio ai confini della nostra coscienza di esseri umani senza una terra di origine: ne possediamo una di transito e per un breve momento.

In ciò si avverte il pellegrinaggio amaro di una vivisezione interiore che ci faccia dire "io c'ero" senza alcun senso di possesso, con la nostalgia dell'assenza e del più indissolubile silenzio, con la sofferta convinzione del dubbio, della riluttante certezza di esser(ci) per realizzare un progetto di <relativismo> che non ci consenta deroghe.

Un lavoro intenso e fortemente impregnato di un linguismo oculato e scabro, fatto ai limiti della prosa, senza orpelli, orgiasticamente atto a demolire i cardini di una quieta vita per addentare (si fa per dire) la drastica e belligerante realtà del quotidiano, fatto spesso orpello di vanagloria, di atroci dissidi, di sperequazioni illogiche, di smarrimenti, di derive. Una realtà cruda, nella quale Luzzi destreggia il verso in prossimità della riflessione, del presentimento più lucidi dei nostri tempi..

"Avanzano le schiere corrucciate della specie

i fronti massicci del bisogno. Occorrono

sabbia e farina per i morti, calce

e pane derelitto, poche croste."

Trattasi di una poesia affilata, rivolta al sociale che non demorde di proporre la controffensiva alla vita, all'esistente che pure si macchia di un'onta feroce e non disdegna di attuare atrocità nel mondo, sotto la spinta di irresponsabili quanto deprecabili avvenimenti.

Un lavoro di cesello che sa interpretare la Storia e gli eventi in modo crudo, ma autenticamente nutrito di oculata saggezza, di profondo senso del dubbio, di icastico soffio vitale, pur nell'inestinguibile mistero che orienta e sgomenta.

Una poesia che sa stabilire un margine tra il cauto ottimismo e il nulla, tra il chiaro e lo scuro di una tribolazione che travalica "il buio"per tentare la luce, anche se questa luce ci viene dal pensiero della morte. Ma cos'è la morte, se non un congiungimento all'eterno ciclo della vita? Cos'è la vita senza la morte? questi e tanti altri enigmi sono espressi nel fitto linguaggio di Luzzi. una poesia da proporre alle nuove generazioni, che non favoleggia, non mitizza i suoi "idoli di cartapesta", non li giustifica, li frusta, li condanna, evoca i vecchi dèmoni come fallibili autori di atrocità, di genocidi, di intemperanza inaudite. Così, quasi per caso: " In faccia ai libri, al tramonto, senza un'idea" esplora il suo progetto "indifendibile", umano, perverso.

Il senso della Storia si muove sullo sfondo, indietreggia e vacilla sotto il peso dello scavo luzziano, che mette il dito nella piaga, nel nichilismo della specie umana, nel vuoto e nel buio che ci distraggono  e disorientano.  "Sciame di pietra" è un libro da proporre, un libro che un po' ammonisce, senza essere didascalico, un libro per gli amanti della scavo interiore, della riflessione, per gl'interpreti del dubbio, esplorativo e còlto nella pienezza della sua accezione programmatica di finalità della poesia.

 

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